Room: la recensione di loland10
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Room: la recensione di loland10

Room: la recensione di loland10

“Room” (id., 2015) è il sesto lungometraggio della regista irlandese Lenny Abrahamson.

La claustrofobia cinematografica è sempre appetibile quando le cose da dire sono per storie mai banali e per inquadrature sempre da (ri)scoprire. E dura il giusto in questa pellicola per darci lo stimolo di una domanda finale: quale luogo è ideale per instaurare buoni rapporti? I parenti poi sono (dovrebbero essere) il sale di una vita di relazione (come una buona amicizia) ma il piccolo mondo dorato (anche se costringente per colpa di un pazzoide), sembra un controsenso e naturalmente è tale, ma è la vita ordinaria umana che cerca aneliti opposti al quieto vivere pur di racimolare qualche (e più) colloquio diretto e un afflato d’animo e d’affetto verso i propri simili. Perché è questa la sensazione: il mondo ristrettissimo e castrato del conosciuto esterno pare dare ad un figlio ed una madre un bisogno di conoscenza che supera e sradica ogni polemica e rivalsa, oppure ogni separazione forviante, per un mondo largo che avrebbe bisogno di compattezza, di colloquio, di sincerarsi e, soprattutto, di accudire (nel vero senso della parola) l’interiorità spigolosa di ogni umano che si rispetti. E il riscatto della madre (con dubbi, incertezze, ansie, paure e sottomissioni maschili) diventa un duplice riscatto di un figlio che ancora non conosce affatto la realtà fuori dal destino di un televisore imbruttito e quantomeno da spegnere appena il fuori è dentro il dire “tu sei ma’” che vale più di ogni altra cosa. Il figlio accetta Sua Madre prima che la Madre accetti la vita di suo Figlio. Un ossimoro di complicità che va ben oltre il giusto mondo e la rivalsa che il film in aspetti che sembrano secondari riescono ad emergere come fondamentali. Gioca con i Lego, tutti i bambini giocano con i Lego, ma Jack non ne vuole saper, ma la sua forza interiore per la Vita ne coinvolge un destino di costruire un qualcosa che poi vuole distruggere per donare la vera forza del suo animo alla sua ma’ cioè i suoi capelli che erano diventati troppo lunghi in un chiuso di stanza da odiare per sempre.
A cinque anni Jack conosce se stesso e la sua ‘genitrice’ con uno sguardo interiore di grande forza e con un atteggiamento di ascolto (quello che spesso non fanno gli adulti …. e nel film la cosa è evidente nell’ambiente familiare) e di punto di vista che non osserviamo. Quando un figlio salva una madre che non sente più vicina (mentre la madre non riesce a catturare i problemi di una figlia sola e abbandonata) e quando un figlio si butta nel mondo (non volendolo affatto) reale con la paura di un’inesperienza innata. Ciò che vuoi puoi farlo e gli anni sono pochi per fuggire ma molti per gridare il proprio agghiacciato soccorso da una stanza sconosciuta a tutti. Non vedo che poco, poco più di niente, ma la vita di una madre che aspetta va oltre e il cielo sconosciuto come le foglie verdi ridestano il cuore di un bambino ancora vuoto di contatti oltre quello materno. La bassa voce diventa grido di schianto per tutti.
Jack nell’interpretazione dell’attore canadese, dieci anni ad ottobre, Jacob Tremblay è superlativa e vince la gara veritiera e reale sul cast al completo. E la grande ‘performance’ di Brie Larson (ha vinto il Golden Globe ma non l’Oscar, ma questo cambia poco…) è da contraltare a quella spontanea, immediata, istintiva, impulsiva e accattivante del bambino Jack. Vedere quando comincia a scendere e salire le scale, i suoi occhi verso gli scatoloni dei giocattoli, toccare gli oggetti della stanza, fiancheggiare il cielo sopra di lui, assetarsi del volto della madre per cambiare il film in un tono alto e alquanto dirompente. Girare per i corridoi della sua nuova casa (lusso oltremodo ingestibile per il nuovo ‘ospite’) e aprire a se quello che vede: un resoconto cinematografico di grande effetto che mostra (in modo molto sottile, forse involontariamente o meglio si nota per chi scrive questo) un (extra)terrestre in cerca di un succo-vitale come un ‘sottile’ gioco di orpelli eliminati nel muoversi (in trambusto) e dondolante del ‘pupazzo’ creato da Carlo Rambaldi.

Ristretto luogo e stanza di uno squallore poco raccontabile e molto vero: riguardare tutto dentro.

Old Nick, l’uomo senza ritegno che azzera una donna e non vede un bambino.

Orrendo mondo, oltre il lucernario, oscuro ciò che la televisione nasconde.

Memoria di un luogo da rivedere e da toccare con mano. ‘Non è stanza se non si chiude la porta’ dice Jack alla madre. ‘Meglio di no’ . Sì meglio andar via, lasciarsi dietro il passato tremendo, chiudere il cancello di un giardino inospitale e avvicinarsi ad un’auto della polizia in attesa.

Un film di sentimento con un intrattenimento di vera intelligenza; forse troppe le immagini finali per raccontarci oltre quello che sarebbe utile pensare che vedere: così la pellicola tende a diluire in più minuti ciò che si racconta. Il capanno e il ritorno: a mio dire (opinione naturalmente) potevano essere visti da lontano.
La regia di Lenny Abrahamson è funzionale e segue i personaggi con giusta efficacia.
Voto: 8.

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