L’osannato esordio di 50 anni fa ingannò anche me: ci si convinse d’essere al cospetto d’un Buñuel nostran’o d’un autore alla pari di Ferreri, intriso d’una “dissacrante, estremista, feroce, rabbiosa” (Mereghetti), veement’anarchia antiborghese. L’equivoco si celava già nel titolo: traduzione di “Je m’en allais, les poings dans mes poches crevées”, incipit di “Ma bohème”, quando Rimbaud ancora si trastullava con versi e poesie prima di rivoluzionare a 19 anni la letteratura mondiale inventando la prosa lirica d'”Une saison en enfer”, era l’infantil’appello a una vita bohémien, zingaresca. Se lo si rivede oggi, “I pugni in tasca” fa calare le palpebre dop’appena pochi minuti. Davvero una “Bella addormentata” (2012). Il malinteso scomparve col passare del tempo e dei film, i quali chiarirono come Bellocchio foss’interessato non a sgretolar’i disvalori della tradizione bensì semplicement’a trasferirli dentro un’ideologia più secolarizzata e sinistrorsa. Si scoprì un banale antidoroteo e antiteocon, “Buongiorno, notte” del 2003 dimostrò che gli sarebbe bastata “l’apertur’a sinistra” dei morotei, il compromesso storico, il cattocomunismo (da cui in seguito s’è allontanato candidandosi all’elezioni politiche del 2006 con radicali e socialisti). Nell’antecedente “L’ora di religione (Il sorriso di mia madre)” del 2002 aveva squadernat’un compendio di storia della “miscredenza metafisica” (cit.): il lungometraggio inizi’a casa del pittore Picciafuoco, probabilmente Feuer-bach, “torrente di fuoco”, l’inauguratore del modern’ateismo proiettivo, col piccolo figlio impegnat’a litigare contr’un Dio spion’e guardone identico a quello della biografia di Sartre e del suo ateismo postulatorio. Subito dopo Castellitto fotoritocca la “Gradiva”, bassorilievo divenuto prima romanzo di Jensen e poi saggio di Freud, padre dell’ateismo edipicamente psicologico. In sintesi: l’avevamo considerato un regista profetico, precursore del ’68, ma è più probabile che lui e il ’68 fossero la retroguardia d’istanze tardottocentesche già confutat’e fallite. “Sangue del mio sangue” demonizza l’aristocrazia ematofaga di zanzare inquisitorie del XVII secolo e d’odierni vampiri massoni, la parassitosi di poteri ecclesiastici e politici, espliciti e occulti, “dell’Italia di sempre”, e si crogiol’in un laicismo autoproclamatosi migliore: la location è rimasta la stessa del debutto, il paese natale Bobbio, la sua famiglia pseudalternativa è spalmata fra i vari ruoli (i figli Pier Giorgio ed Elena, il fratello Alberto, l’ex mogli’e madre d’Elena Francesca Calvelli al montaggio), la fascinosa fotografia è di Ciprì, alcune scen’e un paio di dialoghi sono visionariamente suggestivi mentr’altri son’un tracollo creativo, la resa di personaggi com’il cameo interpretato da Timi è sconclusionata, l’onirico continu’a svolger’una funzione non psicodinamica ma di mondi paralleli sognati a occh’aperti, spicca un’esplicita vena non si sa bene se neo o vetero femminista (cf. su IMDb il picco positivo, voto 7.6, delle “Females Aged 45+”: http://www.imdb.com/title/tt2922590/ratings). Questo sarebbe un presunt’esempio di “cinem’in rivolta”, impegnato e militante (cf. il picco negativo, voto 5.9, dei “Males Aged 45+”).
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