Sarà il mio tipo non ha il coraggio di essere una favola. Ma non ha neanche il coraggio di essere cinico fino in fondo. In questa storia d’amore tra un filosofo di Parigi e una parrucchiera di provincia si cammina in equilibrio precario tra romanticismo e sarcasmo non sbilanciandosi mai da nessun lato, e non per una scelta voluta di ambiguità, di sfumature del racconto; il film sembra piuttosto avere come paura di cadere, di pendere troppo da un lato, commerciale o autoriale che sia. È indeciso sul suo sguardo: estremamente attento a non giudicare i suoi due protagonisti e i loro mondi così opposti (Karaoke vs opera lirica, Jennifer Aniston vs Kant, romanzi rosa vs La ricerca del tempo perduto, sentimento vs ragione, provincia vs metropoli), è politicamente corretto nell’elargire ecumenicamente battute a ciascuno dei due universi, strizzando furbescamente l’occhio agli “spettatori modello” di riferimento di ognuno, per dirla con un termine semiotico. E così, alla fine, il problema è che si rimpiange l’acidità sofistica di Cena tra amici come anche la sdolcinata poesia di Pretty Woman, tanto per citare due esempi dei poli opposti tra cui Sarà il mio tipo rimbalza.
Tratto dal romanzo di Philippe Vilain Non il suo tipo (in Italia edito da Gremese), il film segue le vicende di Clément, giovane professore di filosofia parigino costretto a trasferirsi per lavoro ad Arras, verace cittadina nel nord della Francia: lì, ingabbiato nella banale vita provinciale, inganna la noia iniziando una relazione con Jennifer, un’esuberante parrucchiera. Finché il loro amore rimane chiuso nelle quattro mura di una camera d’albergo o dell’appartamento di periferia di lei, i due stanno bene insieme ma quando si affacciano sul mondo esterno la diversità culturale e sociale fa stridere la loro unione. E se Clément vive questa relazione alla giornata non preoccupandosi troppo del futuro, Jennifer (che ha alle spalle già un divorzio e un figlio) non ha più voglia di perdere tempo con liaison inutili: riuscirà infine l’amore a trionfare nonostante tutto? La risposta è nel finale, ma più della conclusione (che ovviamente non vi sveliamo, ma che non possiamo non giudicare decisamente irrealistica) e dell’indecisione di sguardo citata prima, del film rimane soprattutto il bel ritratto della provincia con i suoi “sabato sabato” – per citare Jovanotti – dove la sera “tutto sembra finito ma poi ricomincia” e dove le ragazze che si coprono di brillantini per truccare di magia le loro nottate, oltre a qualche scena ben costruita (su tutte quella in cui Jennifer cerca di leggere La critica alla ragion pura di Kant dalla prima all’ultima pagina con tanto di dizionario su cui cerca ogni singola parola e su cui suda su ogni pagina). E soprattutto due ottimi attori: Emilie Dequenne (attrice belga, indimenticabile Rosetta per l’omonimo film dei fratelli Dardenne che le ha regalato il Prix d’interprétation féminine al Festival di Cannes del 1999) e Loïc Corbery (membro della Comédie-Française), lui perfetto nel dare volto a quel professorino con giacca di velluto d’ordinanza, certo affascinante ma soprattutto snob, freddo, distaccato e che si prende un po’ troppo sul serio. Così come un po’ snob, distaccato, è, alla fine, il film stesso.
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Mi piace: La fotografia vivida e realistica della provincia francese con i suoi “sabato sabato” e le serate al karaoke. Le ottime interpretazioni dei due protagonisti.
Non mi piace: L’indecisione di sguardo del regista: estremamente attento a non giudicare i suoi due protagonisti e i loro mondi così opposti, è politicamente corretto nell’elargire battute a ciascuno dei due universi e a non sbilanciarsi mai troppo sullo lato commerciale o autoriale.
Consigliato a chi: Ai romantici e ai cinici, a chi ama le commedie sofisticate francesi e/o quelle sdolcinate americane.
Voto: 2/5