È inverno a Philadelphia e Billy Batson (Asher Angel), un quattordicenne problematico, viene dato in affido a una famiglia per la settima volta. Dopo aver salvato dalle grinfie di alcuni bulli Freddy (Jack Dylan Grazer), ragazzo disabile che vive con lui, viene trasportato dalla metropolitana in un regno magico, in cui un barbuto mago gli attribuisce dei poteri mitologici che prendono vita semplicemente pronunciando una parola magica, “Shazam!”, e lo tramutano in una versione adulta, muscolosa e potente di se stesso (Zachary Levi).
Dopo il trionfo commerciale di Aquaman, la DC punta su uno dei suoi personaggi meno noti per continuare spingere sul pedale del divertimento fracassone: un ragazzino il cui nome da supereroe altro non è che l’acronimo di sei personaggi mitologici, Salomone, Hercules, Atlas, Zeus, Achille e Mercurio. Nato nel 1940 dalla penna dell’artista C.C. Beek e dello scrittore Bill Parker sulle pagine di Fawcett Comics e acquistato dalla DC Comics nel 1972, Shazam!, che nel suo periodo d’oro era perfino più amato dell’analogo e più illustre collega (Superman), rivive sul grande schermo nel film diretto da David F. Sandberg, cineasta dai trascorsi horror (Lights Out, Annabelle: Creation) e a suo agio con i tocchi mostruosi della storia.
Un cinecomic in perfetta continuità col nuovo corso della DC, che si prefigge di essere il più agile ed eterogeneo possibile, senza tirarsi indietro quando c’è da fare il pieno di ironia e leggerezza. In tal senso Shazam! è una vera e propria boccata d’aria fresca, un luna park per nerd esilarante e originale con protagonista uno dei supereroi più divertenti mai apparsi sullo schermo: un ragazzone dalla faccia di gomma, sbruffone e dall’atteggiamento liberatorio da bambinone troppo cresciuto, sempre pronto a fare lo spaccone coi propri superpoteri. Col sorriso stampato in faccia e senza troppa cura delle eventuali conseguenze.
Il film di Sandberg cavalca queste premesse senza investire troppo sulle scene d’azione e sulla CGI, funzionali allo scopo ma quasi vintage, per tempi e per toni, se paragonate alla media dei blockbuster contemporanei tratti dai fumetti. La sensazione, in un’operazione che punta tutto sulla propria scriteriata, ridanciana vena spassosa, è quella di trovarsi al cospetto di una gustosa versione sotto steroidi di quel cinema anni ’90 riesumato di recente anche da Captain Marvel. Con tanto di avventura dai tratti esoterici ma a misura di bambino e mostri tamarri non particolarmente rifiniti sprigionati dall’occhio del temibile villain, il dottor Thaddeus Sivana di Mark Strong.
Non può non tornare alla mente il cinema di John Hughes, abitato da ragazzini cui era facile affezionarsi e nei quali ci si poteva altrettanto facilmente rispecchiare. Non a caso anche in Shazam! la contrapposizione tra Billy e Freddy è il cuore emotivo della storia, il fulcro del romanzo di formazione che ci viene proposto e della origin story di fondo, nella quale, come si conviene a quel filone di teen movie, il punto è imparare a essere visti per quello che si è e non per come si appare. Anche se, il più delle volte, il passaggio più difficile è proprio vedersi nel modo giusto, imparare ad accettarsi per fare pace con se stessi a dispetto della propria mancata popolarità (e va da sé che in questo caso avere accanto uno strambo e pasticcione amico in calzamaglia non aiuta per niente Freddy).
Nella gestione gustosa di questi ingredienti risiede buona parte dell’esito positivo di Shazam!, che non teme di scantonare nel demenziale per strappare le risate più fragorose. Nelle sequenze in cui Freddy e Shazam spuntano da una lista i superpoteri concessi in dotazione al protagonista (Può volare? Ha una vista a raggi X? Può lanciare dei fulmini dalle mani? Può saltare i test delle lezioni di studi sociali?) sembra quasi di assistere al backstage di una gag di Sacha Baron Cohen finito su Youtube, ovviamente senza alcuna punta di politicamente scorretto ma con un’estetica e una forma che si rifanno allo stesso modello di irriverenza. E funziona molto, in questi termini, anche l’interpretazione di Zachary Levi, per modulazione della voce e mimica da cartoon.
Il risultato è un cinecomic amabile e scacciapensieri, che vola via con brillantezza sulle note di Eye of the Tiger e Don’t Stop Me Now dei Queen, rifiuta senza alcun senso di colpa la tentazione della maturità e dà alla DC un prototipo efficace sulle cui prerogative si potrà senz’altro continuare a lavorare in futuro. Un film in cui una famigliola accogliente e multi-culturale, con tutti i componenti perfettamente dosati e tipizzati come in una sitcom black e nineties alla Willy, il principe di Bel-Air o I Robinson, può convivere senza colpo ferire con un Babbo Natale sboccato messo lì a fare da battitore libero. Ovviamente non mancano nemmeno gli anni ’80, quelli del Tom Hanks di Big (modello che Levi ha candidamente ammesso) e de I Goonies: un eclettismo pop ed ecumenico nel quale citare Gandhi o Yoda è un po’ la stessa cosa e che, nel suo piccolo e senza strafare, è un ulteriore valore aggiunto in termini di piacevolezza.
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