Quando due anni fa usci’ il primo film di Guy Ritchie, la maggior parte dei commenti rimarco’ le differenze con il personaggio di Conan Doyle e, puntualmente, ciò si e’ ripetuto con l’uscita di “Gioco d’ombre”.
In realtà lo Sherlock Holmes letterario, quello del “canone”, di rado ha avuto a che fare con le sue trasposizioni cinematografiche: persino i film con Basil Rathbone, suo iconico interprete, ne sono lontane, essendo quasi tutte basate su storie apocrife (Holmes arrivo’ perfino a lottare con i nazisti!), mentre il dr. Watson e’ ridotto a gentiluomo di mezz’età, un po’ ottuso e sovrappeso.
I film di Guy Ritchie, dunque, non fanno che inserirsi, con piena legittimità, nella serie delle infinite reinterpretazioni del personaggio, scegliendo di enfatizzarne la fisicita’, resa pari alle celebrate capacita’ deduttive.
I due film hanno andamento parallelo: il grande detective si annoia, dedicandosi ad astruse applicazioni e ricerche; si confronta con il matrimonio dell’ amico Watson, ponendosi in vari modi in contrasto con Mary; viene ingannato da Irene Adler; si tuffa nella lotta contro un arcinemico.
In “Gioco d’ombre” il villain e’ il prof. Moriarty, fascinoso e geniale pianificatore di sconvolgimenti internazionali, nonché spietato melomane.
Compaiono il fratello Mycroft (un ironico Fry, che si presenta anche, chissà perché, in disinvolta tenuta adamitica) e la determinata zingara Sim.
Complicata, esagerata ed esplosiva la trama; eccezionali musica e ambientazione.
Holmes si confronta con Moriarty in un lungo duello di astuzie, accettando d’essere vulnerabile, fino all’epilogo, alla cascata di Reichenbach.
Il film e’ godibile e garantisce due ore di svago – ammortizzando pienamente la caduta di stile degli insostenibili travestimenti metropolitani ed il richiamo subliminale al Joker, nella bocca sbavata di rossetto di Holmes en travesti.