Come si scardina il fondamentalismo religioso? Come si obbliga un mistico a scendere a patti con la realtà – cioè con le diversità antropologiche, sociali, linguistiche, culturali che stanno dentro al mondo e ci distinguono?
Siamo nella prima metà del 1600, in Giappone, all’inizio del periodo Tokugawa. Lo shogunato perseguita i cristiani, uccidendo i contadini e torturando i preti per costringerli all’abiura, cioè alla sconfessione della propria fede: una vera e propria inquisizione, perpetrata dal misterioso governatore Inoue. Quando si diffonde la notizia che un padre gesuita, Christovao Ferreira (Liam Neeson), ha rinnegato il Cristianesimo, Sebastian e Francisco (Andrew Garfield e Adam Driver), due dei suoi confratelli, decidono increduli di abbandonare il Portogallo e viaggiare fin là per verificare di persona. Troveranno sparuti gruppi di fedeli abituati a pregare di nascosto, e guardie imperiali decise a stanarli, in quanto ultimi rappresentanti della cristianità in Giappone.
Più che il viaggio fisico dei due preti, che si risolve nella prima mezz’ora, il film racconta la presa di coscienza di Sebastian. L’inquisizione ha smesso di trasformare i preti in martiri, e usa le vite dei contadini cristiani come arma di ricatto. L’abiura richiesta a loro e a Sebastian è, nella sostanza, una formalità: calpestare una mattonella con il volto di Cristo. E in quanto formalità, esprime una necessità del tutto pratica, quella di tagliare le radici a una forma di misticismo che rischia di mettere in crisi il progetto dello shogunato.
La distinzione è molto importante, perché il movimento del film è un movimento di separazione linguistica: man mano che il confronto tra Sebastian e i suoi carcerieri procede, diventa evidente che le due parti non sono in grado di comunicare. Le priorità dell’inquisitore sono politiche – Inoue parla di governo e territorio, di controllo della popolazione. Quelle del gesuita spirituali – Sebastian parla di Verità con la V maiuscola, che in quanto tale non può che essere universale.
Ma Sebastian non è nemmeno in grado di comunicare davvero con gli amati fedeli, perché non ha mai imparato il giapponese: confessa uomini e donne di cui non comprende i peccati, e che pronunciano con nomi storpiati (“Paraìso, paraìso“, ripetono come una filastrocca e spesso a sproposito) dogmi della fede su cui proiettano secoli di civiltà oscuri all’Occidente, una forma di spiritualità che non è mai stata studiata e storicizzata. Dio stesso, scoprirà, qui ha un nome diverso.
Alla separazione linguistica corrisponde poi una separazione percettiva, ed è in questa che avviene il vero miracolo del film, ovvero il suo essere perfettamente laico o perfettamente cristiano a seconda dell’osservatore. Un ateo sbigottisce di fronte ai contadini pronti a farsi ammazzare per non mettere i calcagni su una tavoletta, e tanto più di fronte a un prete disposto a lasciarli morire in nome di una forma di misticismo. Il credente vede in questo la prova estrema della fede, cioè il martirio. Scorsese trova dentro a questo conflitto un equilibrio commovente, che è la prova (non tanto definitiva, quanto esplicita) della sua frattura e della sua ricerca – della sua onestà -; il regista che doveva diventare sacerdote, l’autore che ha costruito una carriera intera, e capolavori su capolavori, sulla ricerca dell’identità e i complessi di colpa.
Il pensiero, il linguaggio e le priorità dell’inquisizione non sono meno forti di quelle di Sebastian, anzi, più passano i minuti e più il padre sembra un pazzo. Tuttavia non si vede la fine del conflitto, non c’è soluzione (e qui la lunghezza e la durezza del film non sono rinunciabili). Poi l’incontro con Ferreira avviene, in quella che è forse la scena politicamente più importante del cinema di questo decennio devastato dai fondamentalismi, e nel dibattito irrisolvibile tra la fede e lo stato irrompe il compromesso, cioè il mondo. Il resto è il silenzio del padre, intorno al quale i simboli della fede restano potenti (fate caso alla cordicella della finestra, vicino alla testa di Sebastian, durante l’ultima confessione…), ma non la parola.
Film impegnativo a dir poco, diametralmente opposto nell’intento spettacolare e quindi nella forma commerciale a The Wolf of Wall Street, Silence può essere rifiutato per ignoranza, prevenzione o fatica. Ma non può essere discusso, né nelle ovvie qualità estetiche, né nella qualità straordinaria del discorso morale.
Mi piace: le ambizioni altissime del film, a cui corrisponde una messa in scena limpida e suggestiva
Non mi piace: la durata e la durezza del film, potrebbero spaventare qualcuno
Consigliato a chi: vuole fare i conti con i conflitti irrisolti del cinema di Scorsese, in un film che li affronta di petto
Voto: 5
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