Negli anni 40 del diciassettesimo secolo due giovani missionari gesuiti si avventurano nel Giappone della repressione anticristiana alla ricerca del predecessore padre Ferreira, disperso e rinnegato come un colonnello Kurtz della fede.
“Silence” di Scorsese non è un film facile, quasi ti fa rimpiangere il colorato trailer di “La La Land” che hai visto prima, non è il genere di film che consigli o che puoi dirne bello o brutto, è un’esperienza e, per quanto estenuante, ti resta dentro.
Provoca emozioni contraddittorie seguire le vicende dei due ragazzi sperduti in una terra ostile e a contatto con esseri umani tanto diversi culturalmente da risultare alieni, contadini dalla fede forse idolatrica ma incrollabile e aguzzini implacabili nel voler estirpare la religione estranea.
Lo spettatore è portato a identificarsi in particolare con padre Rodriguez, che è anche voce narrante del proprio tormento ed interpretato dal bravo Andrew Garfield, finalmente attore maturo.
Il racconto è lineare, spesso ripetitivo e senza guizzi registici, asciutto nella sua crudezza narrativa.
C’è una distanza di fondo, la scelta di non voler commentare la storia ma di lasciare aperta ogni interpretazione, che rende ancora più difficile sopportare le torture minuziose e simboliche degli inquisitori giapponesi.
Il silenzio di Dio è sempre lì e il film non offre scorciatoie di conforto nemmeno quando le scelte dei protagonisti diventano intollerabili, quando portano a chiederci cosa avremmo fatto noi al loro posto.
Non è quello che ti aspetti, non ti arricchisce interiormente, ma ti rimane in testa scatenando riflessioni sulle culture, sul senso del voler convertire altri popoli e ovviamente sulla fede dei singoli, sulla forza delle motivazioni interne che spingono le azioni degli uomini.
Di certo la visione di “Silence”da un nuovo senso all’espressione “soffrire in silenzio”.