“Silence” (id., 2016) è il ventiquattresimo lungometraggio del regista Martin Scorsese.
Silenzio senza alchimia, silenzio senza pausa, silenzio della vita, silenzio di Dio. Già l’inizio dice proprio tutto della pellicola. Schermo nero, fruscio di piccoli rumori dalla natura e del suo intorno, fruscio e brusio che cresce minimamente: poi tutto tace ed entra ‘silence’ come logo e titolo. Ecco in silenzio per ascoltare e ascoltarci dentro.
Introspettivo, interiore, intenso, ispirato, irrazionale, inverecondo e infausto. Il film della pochezza terrena, della estrema violenza, delle mura ricolme e dell’acqua purificatrice. E’ il destino che cambia ogni strada, è la strada che si cambia in un incontro.
Lezione di cinema silente, di abbassamento degli sguardi, di nature nascoste e delle ostilità in ogni cultura. La fede non si (s)vende, la speranza è il tragitto, gli uomini annientano ogni volo (pindarico).
Elenco di visi, occhi, incontri, discorsi, regole, abiuri, credenze e credi. Film dove la lotta è all’ultimo respiro e dove ogni respiro si ritrae verso ogni sguardo. E’ la persecuzione che manifesta la vita da respirare.
Nulla da barattare, nulla da opporre, nulla da controbattere: il mentore nasconde l’atroce verità.
Cristiani non proprio amati nel Giappone del Seicento. E poi abiurare per non soffrire pene indicibili. Gocce di sangue, onde fino alla bocca, lavacri di dolore e vittime bruciate.
E il giudizio Tokugawa segna ogni villaggio, ogni famiglia, ogni convertito. Vere storie di dolore. Atrocemente e senza allontanare(ci) la macchina segue ogni stllicidio, ogni sudore, ogni pianto e ogni maschera umana.
Due gesuiti portoghesi (Padre Padre Sebastião Rodrigues e Padre Francisco Garupe) vanno in Giappone (siamo a metà del ‘600) per cercare e incontrare il loro mentore Padre Cristòvao Ferreira. La verità che trovano in quel Paese è duplice: una fede incrollabile in persone che vivono allo stremo per luoghi e cibo come una cultura completamente avversa alla credenza cristiana. Destini di sangue e morte oltre il silenzio del Soprannaturale. La sceneggiatura di Jay Cocks e dello stesso regista è tratta dal romanzo ‘Silenzio’ dello scrittore giapponese Shusaku Endo, dove si parla delle persecuzioni contro i cristiani in seguito alla rivolta di Shimabara (1637) contro il governo per la forte opposizione alla religione cattolica (in gran parte gente povera e contadini).
Il cinema di Scorsese è complementare nelle storie, è discesa agli inferi come il metabolizzare discorsi di purezza indistinta. Ogni film ne deduce la dura battaglia virulenta e l’ideale umano viatico di estrema illogicità e spirito (superiore).
Da “Taxi Driver” a “L’ultima tentazione di Cristo”, da “Fuori Orario” a “The Wolf of Wall Street”, i film del newyorkese sono intrisi di paradigmi insperati, di forvianti fisicità, di stranezze illogiche e di paradisi laccati e istrionici. Uno scorrimento di (il)legalità, di (s)banda(menti), di chiaroscuri, di bella-vita, di borghesi-sunti, di città nefaste e di logorroici ardimenti vuoti. E’ senza orario vero, il film di ogni stagione, del cineasta americano: tutto è atemporale. I sogni, la realtà, l’alienazione e la violenza sono tutt’uno: ecco che il cinema diventa specchio di un ‘silenzio’ ancestrale, di un ‘rumore’ ammiccante. La sordità del soprannaturale come la cecità umana sono all’unisono il destino di un uomo pervaso da segni del Nulla e dalla difficoltà estrema del quotidiano.
L’omaggio iniziale (è) rosselliniano a tutti gli effetti o una congiura quasi distaccata con la ripresa asciutta e scarna di un certo neorealismo affrancato e povero (né Pasolini, né Visconti antepongono al maestro ogni decisione culturale). E la pioggia incessante come gli sguardi contrapposti e, come ancora, il villaggio (segnato e melmoso) danno il gusto di un Akira Kurosawa che di indizi, occhi e false verità ne godeva con parsimonia giocando (con noi) acutamente nella storia di un Giappone (ancora) da scoprire.
Andrew Garfield, Adam Driver e Liam Neeson sono gli interpreti dei tre Padri gesuiti.
Menzione speciale (ed ennesima) per Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo: coppia costumi e scenografie da esaltare ogni volta. Poi il connubio col regista è diventato sinonimo di franchezza, sincerità e senso di appartenenza.
La regia di Scorsese è di una spanna sotto la storia che racconta ma, contemporaneamente, è di una spanna sopra al livello di orrore da rappresentare.
Per chi ne volesse vedere un’opera, la pellicola è un capolavoro, ‘tipicamente’ scorsesiana.
Voto: 10/10.