Se fin dalle prime scene vi sembra di trovarvi davanti a un film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, sappiate che è normale. Perché Ursula Meier, regista elvetica classe 1971, è ormai considerata dalla critica internazionale come l’erede dei fratelli più amati dai Festival. Ciò che li accomuna è l’uso della Settima Arte al servizio di una fotografia dei quartieri più periferici della nostra società.
Come quello in cui vivono Louise e Simon, due fratelli rimasti orfani, impegnati ogni giorno a sopravvivere in una non meglio identificata località sulle Alpi svizzere. Simon si mantiene derubando le ricche attrezzature sciistiche dei turisti e rivendendole ai coetanei. Con quello che guadagna si prende cura anche della sorella maggiore, decisamente meno responsabile e sempre in compagnia di partner differenti.
È in questo panorama gelato, geograficamente e umanamente parlando, che si gioca la loro storia, fatta di miseria e solitudine, silenzi e continue negoziazioni, spiccioli faticosamente guadagnati e velocemente sperperati. La macchina da presa invade i loro corpi, li esplora, così come si lascia attrarre dalle montagne, fotografandone l’imponenza e l’altezza che sembra quasi schiacciare le vite di Louise e Simon. Fino a un geniale coup de théâtre che ribalta la vicenda e ci costringe a riguardare l’intera storia da una prospettiva diversa.
Ursula Meier trasforma un ricordo d’infanzia in una riflessione poetica sulla relazione che unisce due persone, capace di appassionare e coinvolgere lo spettatore grazie a una regia che valorizza i luoghi: non semplici location ma veri e propri elementi narrativi che si fondono con i personaggi. Sister è un film “verticale”, in continuo movimento tra l’alto e il basso, la stazione sciistica e i grigi quartieri industriali della pianura. Due mondi diversi e separati, uniti solo dalla funivia. Esattamente come Simon e Louise. Lui attirato dal mondo “in alto”, simbolo di ricchezza e benessere, dove il denaro diventa strumento di difesa ma anche di compravendita dell’amore; lei ancorata al “basso”, dove vive giorno per giorno senza alcuna prospettiva né voglia di lottare.
Molto della forza del film sta nella straordinaria interpretazione di Léa Seydoux e del giovanissimo Kacey Mottet Klein e nella naturale alchimia che i due sono riusciti a creare sullo schermo. Pur in maniera differente, la fisicità e i particolari tratti somatici creano in ciascuno di loro zone d’ombra, rendendoli sfuggenti e senza passato. Sono i loro sguardi, i loro gesti di tenerezza subito seguiti da chiusure, distanze e silenzi che tengono lo spettatore incollato allo schermo permettendogli di superare anche i momenti più lenti e faticosi del film.
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Mi piace
L’alchimia tra i due protagonisti, capaci di rendere i rispettivi personaggi tanto ombrosi quanto interessanti. La regia che trasforma il paesaggio in elemento narrativo, fondamentale per comprendere la psicologia dei personaggi.
Non mi piace
Il film procede in maniera lenta, a volte troppo, tanto che alcune sequenze risultano faticose da seguire. E non chiarisce la relazione che esiste tra Simon e una turista molto benestante, nonostante lasci intuire che i due si sono già incontrati.
Consigliato a chi
Ama il cinema sociale dei fratelli Dardenne
Voto
4/5