Smetto quando voglio - Masterclass: la recensione di Mauro Lanari
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Smetto quando voglio – Masterclass: la recensione di Mauro Lanari

Smetto quando voglio – Masterclass: la recensione di Mauro Lanari

La monicellian’antropologia della “banda del buco” (“I soliti ignoti”, 1958) rovesciat’alla radice per attualizzarl’alla nostra realtà sociologica: rubare, oggi, non è più un gesto d’obiezione di coscienz’alla condann’antiedenica al lavor’o al nazista “Arbeit macht frei”, ma una costrizione impost’ai giovani esperti e competenti privati d’una carrier’accademica. Sibilia non è Suso Cecchi D’Amico né Age & Scarpelli e s’accontenta di compiacere l’odierna genìa di piagnoni vittimisti e rassegnati. Siam’insomma molto più dalle parti dei personaggi di Sordi, che piuttosto di sferzar’il malcostum’italico, lo blandiv’amabilmente.
Non è indolore manco lo slittamento dalla commedia nostrana all’action comedy esterofila (Landis, Ritchie, le saghe d'”Ocean’s”, “Matrix”, “Indiana Jones”, “Terminator”, “Ritorno al futuro”, “Ghostbusters”, ecc.). Si ride molto meno e con molto meno gusto, l’ibridazione per inaugurar’il franchise e quindi monetizzare l’idea del 1° capitolo è economicamente giustificata, ma la nuova costruzione narrativa rimpiazza la precedente invece d’agire per accumulo e quindi la scena dell’assalt’al treno o la sequenza in animazione si perde in uno script bulimico e confuso, dove l’allargamento del cast sin’alla coralità è malgestito scivolando nel bozzettistico celato da un ritmo vertiginoso se non videoclipparo.

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