È solo la fine del mondo
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È solo la fine del mondo

È solo la fine del mondo

Che un autore a 27 anni sia già al sesto film, tutti selezionati a Cannes o a Venezia, crea un contesto unico. Significa avere un ragazzo con un grande potere produttivo oltre che creativo, significa cioè che dentro il cinema che conta in questo momento c’è una specie di anomalia libera che tutti riconoscono e tutti accettano. E infatti il lavoro di Xavier Dolan continua ad essere diverso: diretto, ingenuo, feroce, piatto come una sberla.

Juste la fin du monde è tratto da una piéce teatrale di successo, ed è quindi per definizione un esercizio di stile, cioè è Dolan che esercita il suo stile riconoscibile su qualcosa che hanno scritto altri, e in cui evidentemente ha trovato se stesso e anche quella brevità fulminante che aveva agli esordi.

C’è Louis (Gaspard Ulliel), un autore teatrale che torna a casa dopo dodici anni per dire alla sua famiglia che sta morendo. Tra lui e gli altri passa un breve volo in aereo e una lunga colazione in aeroporto aspettando che faccia giorno, ma la distanza è quella esemplare (e un po’ stereotipata) dell’intellettuale che vive in una grande città, con una madre (Nathalie Baye), una sorella (Léa Seydoux) e un fratello (Vincent Cassel) che invece sono rimasti in un paesino di campagna, dietro a cose più ordinarie.

Louis è una specie di “figliol prodigio”, cioè distante e ammirato, fuggito in cerca del mondo. La madre vorrebbe che portasse i suoi fratelli da qualche parte, che suggerisse a tutti una direzione e un po’ di senso; la sorella minore è piena di malinconia, il fratello maggiore di rabbia, entrambi traducono nel loro carattere una tristezza disperata.
Louis osserva, ha addosso una sorta di serenità mortifera, ama come si ama quando tutte le battaglie sono finite, e vedi solo le persone.

Il modo in cui Dolan impugna questi personaggi è, per paradosso, totalmente anti-teatrale: la recitazione è naturalistica e sempre in primissimo piano, come se lo spettatore guardasse il proprio interlocutore. In pratica tutto avviene frontalmente, dentro quattro lunghi dialoghi (c’è anche la cognata di mezzo, interpretata da Marion Cotillard), che prolungano il tempo prima della confessione.

Negli spazi vuoti attorno ai volti c’è una luce impossibile e miracolosa che dice del passare delle ore e degli stati d’animo, li tiene assieme entrambi, non è mai realistica ed è sempre appropriata, è – per capirsi – la luce nell’ascensore di Drive. Quando un tramonto violento entra improvvisamente in salotto alle spalle di Cassel nella scena madre del film, ogni cosa raggiunge contemporaneamente l’apice, in un attimo è il miglior melò possibile (quante volte è già accaduto con il cinema di Dolan?).

Ci sono infine dei piccoli flashback ancora più colorati, gonfi di pop generazionale (Dragostea din tei!), che mettono a schermo anche il passato di Louis, sono il controcampo di questa vita che sta finendo, nel caos infinito delle vite degli altri, delle vite di tutti.
Un’opera piccola e potente, tutta in superficie, eppure capace di misurarti.

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