Song to Song
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Fassbender, Gosling, Portman, Mara: il quadrilatero amoroso di Terrence Malick

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Fassbender, Gosling, Portman, Mara: il quadrilatero amoroso di Terrence Malick

BV (Ryan Gosling) è un musicista che cerca il successo con l’aiuto della compagna cantautrice Faye (Rooney Mara) e del suo produttore Cook (Michael Fassbender). Se tra i primi due si instaura una connessione emotiva e sentimentale che si carica ben presto di una distanza lacerante, il secondo, uomo feroce e spietato, seduce una cameriera, Rhonda (Natalie Portman) e la trascina con sé in un turbinio di emozioni forti, con la scena musicale di Austin a fare da sfondo alle loro peregrinazioni e alla storia d’amore tra BV e Faye. Song dopo Song, di canzone in canzone e di bacio in bacio.

Il modo in cui Terrence Malick ha radicalizzato il suo cinema a partire da The New World è risaputo e sulla bocca di tutti: l’estremismo portato avanti dal regista di The Tree of Life negli ultimi tempi è tale da aver prodotto, nell’ultimo lustro, un cinema fluido e in presa diretta, privo di una drammaturgia forte e dalle maglie larghissime, che divide puntualmente tra adepti e non adepti, tra folgorati sulla via di Damasco e oppositori radicali dei procedimenti stilistici con cui il cineasta, un tempo appartato, schivo e poco prolifico, ha dato vita alle parentesi più sperimentali del cinema mainstream recente. Song to Song, di tale cammino, è il punto d’arrivo e anche il segmento più oltranzista e difficoltoso, oltre che il meno accomodante e il più simile a un volo in assenza di gravità e in caduta libera. Da Mito che era, col suo eremitaggio mediatico, Malick è diventato esso stesso Fede. Da coprire di osanna o da abiurare. Senza alcuna via di mezzo consentita.

Una faida che dice molto della sindrome da tifoseria dei dibattiti estetici e formali ai tempi dei social, ma che contribuisce anche a scoprire l’approssimazione, fragile e pertanto controversa, di un cinema che si presenta allo spettatore nell’atto stesso del suo farsi, limitandosi ad immortalare uno sguardo al lavoro piuttosto che a mettere in scena, in senso tradizionale: Malick, col suo fido direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, l’operatore Joerg Widmer e una troupe leggera e priva di appigli (Michael Fassbender li ha paragonati a una “banda di pirati”, dediti al caos di danze e coreografie), in Song to Song ha riversato la sua creatività senza ormeggi su Austin, sua città texana d’elezione che ospita diversi festival musicali.

Ma, a differenza della Los Angeles del precedente Knight of Cups, vivida e tridimensionale come pochi altri spazi nel cinema di Malick, in Song to Song sia Austin che la musica sono delle presenze eteree e prive di concretezza, dei fondali completamente vanificati dall’occhio pudico ma cannibale di Malick, interessato esclusivamente a un corpo a corpo erotico e masturbatorio con gli attori, gli ambienti, le luci, gli spazi, gli aforismi e le frasi a effetto puntualmente dispensate dalla voce over in quantità impressionante.

Non è un caso che i titoli provvisori dell’ultimo film di Malick durante la sua gestazione fiume fossero Weightless e Lawless: Song to Song è tutti gli effetti un film senza peso e senza legge, leggero e sregolato, esasperatamente patinato come tutto l’ultimo cinema di Malick e scosso da un fremito disperato e sconcertante – perfino imbarazzante, nella sua ostentata ingenuità e inadeguatezza – di amore esteriore e pace interiore, di dissoluzione della carne e ricomposizione – forzata, solenne – dello spirito.

Quello di Malick è un cinema trasformato in puro atto, in performance istantanea e installazione vivente, una parata di divi usati alternativamente come protesi delle loro icone, come manichini e figurine: un cinema-laboratorio, tutto grandangolo e camera in spalla, che si fa gioco seriosissimo e pedante, dove possono trovare posto indistintamente le piscine e i palcoscenici, i bambini e gli animali, i rocker e i campi vuoti, i sermoni di Patti Smith e la musica sacra, le scale spiraliformi, che ossessionano Malick fin dal suo albero della vita, e dei continui rimandi al proprio universo cinematografico recente, che rendono Song to Song l’ennesimo capitolo di un unico, grande film espanso iniziato proprio con la Palma d’oro del 2011, The Tree of Life.

Malick, che ha iniziato le riprese nel 2012, intercetta anche segmenti di cinema altrui, a cominciare da Closer (il quadrilatero di attori, il ruolo ipersessualizzato della Portman, che mostra le parti intime a Fassbender proprio come faceva con Clive Owen nel film di Nichols) per arrivare al più recente La La Land, col personaggio di Gosling diviso tra pianola in mano e delle ambizioni frustrate: “Quanti in questa città scrivono canzoni?”, gli dice beffardamente il Cook di Fassbender, che in parte pare uscito da Shame, a mo’ di Lucifero sceso tra gli uomini a traviarne la purezza degli ideali (una delle tanti ossessioni di Malick, che in passato avrebbe voluto dedicare al diavolo un film intero, con Roberto Benigni protagonista).

A sentire Patti Smith in Song to Song, a volte «basta un accordo, uno solo»: il cinema di Malick, dal canto suo, pare aver fatto sua proprio tale massima e si è sintonizzato su una monotonia forse irreversibile, sullo sguardo impassibile di chi scruta dei pesci morenti in un’acquario privo di ossigeno e ricambio d’aria. Un’impasse dalla quale traspare sottobanco un afflato purissimo e sincero che forse confluirà in qualcosa di più grande e strutturato, o forse no. Rimane, allora, la nudità impudica di un cinema piccolo piccolo e ridotto al grado zero, interessato soltanto, per citare la Faye di Rooney Mara, a «giocare con la fiamma della vita», con la sospensione estatica dello sguardo, con la rapsodia della forma umana, con la sublimazione del perdono, con le immagini cristologiche e le pietà di Michelangelo da far inscenare ai suoi divi.

La protagonista di Carol e del Millennium di Fincher è probabilmente il battito stesso del film: a lei Malick dedica i primi piani più lunghi e languidi, spesso protratti all’infinito come se il regista volesse staccare il più tardi possibile dal suo volto, e in generale tutte le donne vengono riprese da una distanza maggiore rispetto agli uomini. I primi piani di Gosling e Fassbender sono invece maneggiati come maschere da forzare e da abbrutire a tutti i costi, verso l’ira o verso il pianto, senza concedere loro l’equilibrio di una commozione autentica e misurata. Una distinzione di genere che si fa sguardo sul mondo, sull’amore e sulla frattura tra i sessi ed è, di fatto, l’elemento di maggiore interesse di Song to Song.

Mi piace: la frattura tra i sessi e il modo di rappresentarlo attraverso l’uso formale ed espressivo delle inquadrature e dei primi piani

Non mi piace: l’impasse ormai irreversibile dello sguardo di Malick e del suo stile

Consigliato a: i fan duri e puri del regista

Voto: 2/5

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