Era inevitabile (oltre che attesa) un’incursione nel filone dello space movie nella variegata e multimediale carriera di Johan Renck. Difatti, tra i prestigiosi spot che portano la sua firma, il regista di origini svedesi ha dato vita per immagini al canto del cigno di David Bowie, dirigendo il videoclip di Blackstar, un delirio tra l’onirico e il surreale.
Ad esso è seguito il progetto che lo ha portato all’attenzione del grande pubblico, la miniserie Chernobyl, che ha ottenuto numerosi plausi e riconoscimenti. In entrambi i lavori è individuabile una lampante vicinanza della morte, un’atmosfera funerea che accompagna il Duca Bianco così come le vittime del disastro termonucleare.
Se al tempo stesso era prevedibile la decisione di dedicarsi a un lungometraggio ambientato nello spazio, dopo essersi occupato dell’ultimo videoclip dello Starman per antonomasia, stranisce la decisione di inserire Adam Sandler come mattatore assoluto di Spaceman, prodotto e distribuito sotto il segno della celebre N rossa.
Si contano ancora sul palmo di una mano le (incredibili) prove attoriali in vesti drammatiche del protagonista di 50 volte il primo bacio, eppure nei panni di Jakub Procházka, astronauta in missione dal passato tormentato che deve fare i conti con una relazione ai ferri corti con la moglie (Carey Mulligan) e la sua attuale condizione di solitudine, risulta estremamente credibile.
Johan Renck evita ogni forma di sensazionalismo, così come Adam Sandler, collaborando nel plasmare un protagonista realistico, che sia allo stesso tempo respingente in specifiche situazioni ma anche ridicolo nello svolgere la propria routine da astronauta. Il risultato permette di creare un’incredibile empatia col personaggio, pur vedendolo confrontarsi con un elemento assurdo anche per il sottogenere di riferimento.
Proprio il co-protagonista di Sandler è la variabile più problematica di Spaceman: l’interpretazione vocale di Paul Dano, sommessa e pacata in contrasto con la sua apparenza, è senz’altro funzionale allo scopo di rappresentare un essere in qualche modo alieno e onnisciente rispetto all’umano Jakub. Tuttavia, il character design della suddetta creatura trasforma più di un’interazione tra i due in un siparietto comico dalla dubbia intenzionalità.
Accanto a questi tentativi di stemperare il contenuto principale del racconto, Renck imbastisce una cupa riflessione sull’isolamento, fisico ed emotivo, al quale l’umanità spesso e volentieri viene sottoposta. La necessità di confronto con l’altro, anche se distante in ogni possibile senso, è un interessante senso che porta il film ad aprire un dialogo con la realtà fuori da esso, popolata da individui ancora rifugiati in una solitudine post pandemica dal quale è complesso fuoriuscire.
Tale aderenza con il presente si intravede anche a livello formale: l’espediente più utilizzato richiama l’esperienza dei visori VR, oggi alla ribalta. Oltre a riconfermare Renck come una figura al di sopra del semplice shooter di commercials, consiste in una soluzione visiva contestualizzata con il segmento narrativo in questione.
Spaceman è quindi una creatura ibrida, sbilanciata e imperfetta, ma per questo motivo quasi un unicum nel panorama mainstream, specialmente nella filiera di prodotti uniformati del catalogo Netflix, che ora può vantare un’ulteriore prova sensazionale ad opera del Sandman.
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