Se il talento permette di colpire un bersaglio che nessuno può colpire, e il genio un bersaglio che nessuno può vedere (colossale differenza) quest’ultimo lavoro della pluri-premiata diade Danny Boyle-Aaron Sorkin pare più talentuoso che geniale, senza nulla togliere alla scoccata eccellente di due maestri del contemporaneo. Steve Jobs è infatti paradigma di cinema bello e tonante, dallo scattante design e grandiose sfumature a binario, che carbura senza soluzione di continuità scivolando da dentro in fuori, dai bordi al centro. Ambientato nel backstage del lancio di tre prodotti iconici culminato nel 1998 con la presentazione dell’iMac, è un dietro le quinte della rivoluzione digitale per dipingere il ritratto di un uomo geniale. Corridoio ripido e spigolosamente volto all’intimo, soprattutto sulla questione paterna, come si diceva sopra è prodotto eccellente a tre scatole end to end in elevazione, sorta di impalcatura elettrica dove il profilo dell’inventore si connota di ombre e decisi(vi) flashback. Senza in realtà poter dire troppo di vero, ma forse qui sta il bello, su una così impenetrabile personalità, comunque sceneggiatura, regia e attori regalano il meglio. Soorkin, non senza lo spettro dell’esercizio di stile, si conferma architetto della parola sfoderando frasi da appuntarsi ogni trenta secondi, con dialoghi vertiginosi e irriverenti. Boyle, più in secondo piano, da ritmo visivo e conferisce responsabilizzata liricità, sulla linea della propria linguistica visuale temperata. Fassbender è grandiosa costante nel montaggio, con tre diverse età, capigliature, arrabbiature, e anche la Winslet non scherza. Quasi mai a vuoto, questo cinema di sintassi sbaglia poco. Da vedere e rivedere.
© RIPRODUZIONE RISERVATA