“Steve Jobs” (id., 2015) è l’undicesimo lungometraggio del regista di Manchester Danny Boyle.
Lo ‘Jobs-pensiero’ si dipana da dietro le quinte per presentare i suoi ‘tesori’ in un racconto filmico fluviale e pieno di parole a getto continuo. Non un attimo di respiro, tutto in un tourbillon sciorinato a più non posso da un’interpretazione oltremodo sopra le righe per un biopic che rasenta il massimo per i goduriosi storici della tecnologia e rende l’anima incallita dal successo per l’uomo Mac dietro gli occhiali e le lenti ristretto del mago della Apple. Per chi vuole addentrarsi.
Senza essere permalosi il titolo sfugge di mano nelle due ore ma la voglia di rivederlo se stante è un po’ chiedere troppo per una verbosità che rasenta l’en-plein in ogni minima inquadratura. La velocità mimica e quella di camera sono piccola cosa in confronto ai dialoghi fitti, di corsa, rutilanti e pieni di verve teatrale. Non c’è veramente pausa. E il duo Fassbender e Winslet (Steve-Joanna) fa scintille in ogni parte con una complicità che potrebbe essere utile per film meno ‘biografici’.
Tre nomi, tre presentazioni, tre date, tre dietro le quinte dove succede ogni sorta di litigio, di congiura e di gioco per il futuro del mondo ‘computer’: non c’è tempo neanche per i titoli di testa che compaiono quasi in sordina (in micro-scrittura) tra il video-repertorio (datato 1974) dello scrittore di fantascienza (e inventore) Arthur C. Clarke (‘ il computer come collegamento del mondo ’ entro il 2001…) e i mascherati titoli. Date che iniziano per presentazioni in perfetto orario al secondo (una fissazione del ‘signor Apple’: 1984 (Macintosh), 1988 (NeXT) e 1998 (iMac) sono i tre momenti in cui il film si dipana per un costante (o quasi) dietro alla grande facciata e al marketing esterno.
Empireo computer con battute di omnia scienza. ‘Hai avuto tre settimane per preparare …”, “Il Signore ha impiegato una settimana per creare tutto”, “E mi spieghi come ha fatto?” rivolgendosi al ‘pompatissimo’ Steve che crede di essere sopra ad ognuno o meglio a tutti. Voi suonate lo strumento, io dirigo l’orchestra. Questo è quello che dice a chi pensa di aver preso parte alla vera storia.
Vita costantemente protesa al successo e al cambio di passo per ogni ‘momento-clou’ gli scheletri dell’uomo in camicia bianca restano dentro e fuori l’armadio come tutto quello che traspare dallo schermo s’affastella in uno continuo chiaro-scuro che non lesina perfidie, cattiverie, scontri e ragioni ad ogni costo. Lo sprezzante mondo di un fantasma, testardo e cocciuto, che gira intorno al suo ego-centrismo e ad ogni umorale momento attraente solo per lo specchio che ruota con se stesso.
Esteriormente cadente con pezzi di vanagloria, ci si può cercare (chi vuole) il percorso eccessivo di una strategia (im)possibile e di un successo logico sopra alle teste degli uomini. Mac e Micro i due poteri, le due ‘anime’ di un mondo globalizzato. Steve e Bill che insieme non si vedono.
Il film racchiude una recitazione esasperata con una sceneggiatura quasi inoppugnabile del ‘commediografo’ Aaron Sorkin (già premio Oscar per ‘The Social Network’ nel 2011) e una macchina presa che sta costantemente sul pezzo: tra Michael Fassbender, Kate Winslet , Jeff Daniels e Seth Rogen. Tutto il cast è in gran vena ma la bocca e il corpo dell’attore irlandese-tedesco sono un posa-recitante di rara efficacia come il verso che Joanna fa al suo capo-amico ad ogni domanda o provocazione o ordine (che poi è la stessa cosa…).
La regia di Danny Boyle è congrua al progetto ma la kermesse filmica procura un certo fastidio all’uscita per dire che il bello cinematografico c’è ma ogni scena madre (o quello che vuoi scegliere) pare mangiarsi l’altra o una esclude ogni tiro mancino per un film dove i premi possono arrivare ma che adita a una possibilità di rivedere il colloquio interminabile con il proprio pubblico (gli ‘apple’ gongoleranno per la festa-story … o no …).
P.S. E se Danny Boyle continua (forse) a girare un (sempre) video-musicale fascinoso e ammiccante …
Voto: 7–/10.