Il film racconta la parabola discendente della linguista Alice Howland, colpita dal morbo di Alzheimer, in età non certo anziana e costretta ad andare incontro irreversibilmente verso un declino totale di tutte le sue abilità funzionali, con conseguenze che si riversano, naturalmente, sui familiari, il lavoro, le abitudini di vita e non certo per ultimo, il suo stato d’animo. La pellicola ci mostra, dunque, la metamorfosi di una persona affetta da una malattia capace di rubarti una sostanziale fetta di vita per spegnerti un po alla volta. La dottoressa Alice Howland, rappresentata da Julianne Moore, è una stimata linguista, con cattedra alla Columbia University, un marito ricercatore, John (Alec Baldwin) e tre figli: Tom (Hunter Parrish), Anna (Kate Bosworth) e Lydia (Kristen Stewart). La premessa del film ci illustra la figura di Alice, dotata di una grande personalità, circondata da una famiglia alle prese con i soliti problemi quotidiani, i piccoli screzi tra genitori e figli, nonché tra sorelle. Nel prosieguo del film, questa tranquillità, però viene scalzata da un alone di tristezza e angoscia dal momento che Alice riconosce di dover informare la famiglia di essere affetta dal morbo di Alzheimer, superando anche il primo momento di assoluto smarrimento e chiusura in se stessa dopo le prime avvisaglie di amnesia e i primi controlli neurologici. La sua vita, improvvisamente, subisce delle crepe inevitabili, convivere con il pensiero di dover perdere totalmente la memoria, qualsiasi tipo di ricordo, i nomi dei propri cari, fino alle cose più elementari, la rendono quasi un corpo estraneo alla famiglia, oltre a nutrire sensi di colpa per una possibile trasmissione genetica della sua malattia ai suoi figli. Vivere con il peso di veder da un momento all’altro i sacrifici di tutta una vita dissolversi come vapore nella fitta nebbia, che oscurerà di li a poco irreversibilmente la sua mente, la rendono impotente e vulnerabile. I famigliari comprendono con scarsa sensibilità la situazione complicata che si viene a creare, mostrandosi egoisti, non riuscendo a mettere da parte i propri interessi e le proprie carriere, privandola della loro assidua presenza e limitandosi ad ingaggiare una badante come unico “atto d’amore”. L’unica ad abbandonare i suoi propositi a Los Angeles per trasferirsi a New York dalla madre è la figlia più piccola, Lydia, colei che inizialmente veniva dipinta come la pecora nera della famiglia, per non aver continuato gli studi limitandosi a rincorrere il sogno di diventare un’attrice, si dimostra la più sensibile a riguardo e a dispetto di ciò che veniva palesato all’inizio anche la più intelligente. Il deterioramento che subiscono le funzioni mentali di Alice diventano sempre più evidenti nel corso del film, a fondamento della drammaticità di questa patologia e delle difficoltà che essa comporta, soprattutto all’interno del nucleo famigliare, sempre più incomprensivo di fronte a questo genere di situazione. Dopo diverse nomination, finalmente la rossa Julianne Moore riesce ad aggiudicarsi l’ambitissima statuetta, come miglior attrice protagonista, esibendo una recitazione ineccepibile, dimostrando di meritarsi senza alcun dubbio il premio oscar. Il film riesce a cogliere in pieno il senso della malattia, riuscendo ad entrare nel mondo di chi ne è affetto, con tutte le sue percezioni e difficoltà che è costretto ad affrontare e da tutti gli sconvolgimenti che la sua vita di colpo subisce. La regia è firmata a quattro mani, scritto e diretto da Wash Westmoreland e Richard Glatzer, anch’esso affetto da una malattia neurodegenerativa, è la trasposizione al cinema del libro di Lisa Genova scritto nel 2007, con lo stesso titolo, Still Alice.
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