C’è la bandiera statunitense? Yeah. C’è l’angelologia animistica? Yeah. C’è la figlia che, seppur affetta dalla medesima patologia, scodella due gemelli i quali a 50 anni si ritroveranno una madre nelle stesse condizioni? Yeah. Finisce con la parola amore e un quartetto per archi e pianoforte come una qualsiasi brano di Sanremo? Yeah. Evviva: pure l’Alzheimer precoce, nella rara forma ereditaria dovuta alla mutazione del gene Presenilin-1 e alla conseguente sovraproduzione della proteina Aβ42, viene retrocesso a pretesto per un’elegia degl’intoccabili sempiterni disvalori tradizionali. “Film apprezzabile, sincero, accurato e ovviamente toccante, ma non abbastanza radicale da ‘domare’ davvero un tema potente e sempre un po’ ricattatorio” (Fabio Ferzetti, ” Il Messaggero”). Peggio: “Prima c’era il filone chiamato, spietatamente, cancer-movie. Poi, complici l’Aids e l’emergere al discorso pubblico di alcune patologie, i film di malattia si sono moltiplicati in modo esponenziale […]. Hanno due requisiti, strettamente collegati tra loro: permettono di ricattare emotivamente lo spettatore, facendolo identificare con i personaggi, e offrono ad attori noti l’occasione di portarsi a casa un Oscar” (Roberto Nepoti, “la Repubblica”). Bella però questa frase: “Ciò rientra nella grande tradizione accademica di conoscere sempre di più sul sempre di meno fino a sapere tutto di nulla”.
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