Stoker: la recensione di Giorgio Viaro
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Stoker: la recensione di Giorgio Viaro

Stoker: la recensione di Giorgio Viaro

Se il cinema di Park Chan-wook fosse musica, sarebbe musica classica. E non tanto perché nei suoi film capiti a volte – e capita in Stoker – di trovare un pianoforte che ha un ruolo decisivo nella storia, ma perché nel suo cinema tutto è costantemente in movimento: cose, persone, umori. E l’insieme di questi movimenti è ripreso a sua volta con carrelli infiniti, un esubero di panoramiche e dolly, fino a che ci si trova immersi in una sinfonia di immagini e suoni, un po’ frastornati. Nell’abbandono a questo stordimento  i colpi di scena – sempre “a tempo” – intervengono allora con evidenza, contrappuntando la melodia, e a questo punto tu sei nel sacco.
E poi, certo, il cinema di Park Chan-wook è classico anche in un senso molto più letterario, cioè per il tipo di tragicità che affronta, pertinente i legami di sangue.

Non fa eccezione Stoker, anzi: per il suo esordio in una produzione americana, pur lavorando su una sceneggiatura non sua (è di Wenthworth Miller, il protagonista di Prison Break), l’autore di Old Boy e Lady Vendetta sceglie di ricorrere a una messa perfino più sofisticata del solito, dove il più insignificante dettaglio di arredamento ha comunque una ragione di trovarsi lì dove si trova, che si tratti soltanto di richiamare il colore di un orecchino, o piuttosto di rivelare nuove sfumature di un personaggio (più spesso entrambe le cose). La storia è quella di India Stoker e di sua madre Evelyn (Mia Wasichowska e Nicole Kidman), che dopo la morte del capofamiglia Richard (Dermot Mulroney) in un incidente stradale, accolgono nella propria villa il misterioso zio Charlie (Matthew Goode) – coltissimo, elegante e seduttivo – che piano piano si infila tra le nevrosi domestiche di Evelyn e scolastiche di India, e poi nella distanza aperta tra madre e figlia, portando lo scompiglio.

Il controllo sulla narrazione è assoluto, maniacale. La misura la danno gli stacchi di montaggio, che sono anche un buon modo per capire se questo tipo di cinema può interessarvi o meno: più che stacchi sono dissolvenze, o trasformazioni che portano con sé slittamenti di significato, come se cercaste di mettere a fuoco una pietruzza e all’improvviso vi accorgeste che è uno scarafaggio. Questo genere di montaggio ha evidentemente un valore simbolico, e può essere molto suggestivo, ma è anche una forma di esibizionismo, un modo per marcare la propria bravura, e qualcuno potrebbe irritarsi. Diciamo che è l’equivalente cinematografico di un giocatore di calcio che fa colpi di tacco in continuazione.

Va aggiunto che tutto quello che si è scritto riguarda il modo in cui si racconta la storia, non la velocità, cioè il ritmo con cui gli eventi si susseguono: che anzi è lentissimo, ghiacciato. Il paradosso è infatti che il controllo estremo sull’immagine e il montaggio fa sì che perfino le scene d’azione e violenza, poche ma forti, siano  congelate. Bisogna insomma affrontare il film con parecchia voglia di guardare, e ascoltare. Armati di pazienza: in quel caso l’esperienza sarà appagante, e – per alcuni – un tantino disturbante.

Leggi la trama e guarda il trailer del film

Mi piace
Il controllo assoluto, e carico di significato, sulla messa in scena

Non mi piace
Qualche esibizionismo di troppo negli stacchi di montaggio

Consigliato a chi
Per chi ha la pazienza di seguire il ritmo imposto da Park Chan-wook, e la golosità di gustarsi la messa in scena sofisticatissima, sarà un piacere fuori dalla norma

Voto: 4/5

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