Storia di una ladra di libri: la recensione di Silvia Urban
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Storia di una ladra di libri: la recensione di Silvia Urban

Storia di una ladra di libri: la recensione di Silvia Urban

Nonostante la Seconda guerra mondiale e la storia di una bambina costretta a confrontarsi con la morte e l’orrore della guerra, qualunque paragone con altri celebri film sulla Shoa risulterebbe fuori luogo. Perché Storia di una ladra di libri, adattamento a cura di Brian Percival (Downton Abbey) del bestseller di Markus Zusak, si muove su altri registri. Una regia classica e didascalica ne fa quasi un libro illustrato, dove le parole del narratore – la Morte – si traducono in immagini esplicite ed esplicative.
Una scelta che smorza la durezza del racconto, della Storia (con la S maiuscola), per rendere accessibile a un pubblico giovane la vita della piccola Liesel, adottata dai coniugi Hubermann dopo l’abbandono della madre, costretta a fuggire dalla Germania nazista per via del suo credo politico. Con gli occhi pieni di lacrime e tra le mani la foto del fratellino morto e un manuale che non sa decifrare, si abbandona alle cure di Rosa e Hans, che oltre a sfamarla le insegnano a leggere le pagine dei romanzi come quelle della vita. Il suo percorso di formazione si compie definitivamente con l’incursione di Max, ragazzo ebreo che i genitori adottivi nascondono in cantina. Condividendo la stessa passione per la lettura e il sapere, il giovane guida Liesel nel passaggio dall’ascolto alla scrittura, spronandola ad affidare a un diario le emozioni e la percezione del mondo. E di fatto consegnandole lo strumento della sua salvezza.

L’aspetto più interessante del film ­– sul quale sarebbe stato interessante investire maggiormente, rinunciando piuttosto ad altre sfumature ­– è proprio la centralità che la lettura assume nella vita della protagonista: la curiosità con cui divora i libri, i rischi che è disposta a correre pur di avere tra le mani nuove storie in cui perdersi, l’urgenza dell’evasione per dimenticare la violenza e la paura che accompagnano le sue giornate. Un amore per la conoscenza che non è più di moda di questi tempi e di cui invece la pellicola sottolinea la necessità, quale scudo e arma con cui difendersi dalle logiche distorte del nostro mondo.

E poco importa se per far arrivare il messaggio a chi, come Liesel, passa le sue mattinate sui banchi di scuola si è scelto un effetto edulcorato e patinato: il fine giustifica i mezzi, in questo caso. Il problema è un altro: è l’eccesso di retorica e una ricerca della perfezione – nella costruzione di alcune scene così come nella caratterizzazione di alcuni comprimari (l’amichetto Rudy) – talmente maniacale da rendere palese la finzione e togliere al racconto la sincerità di cui si fanno carico i tre interpreti principali. Impeccabile la prova di Geoffrey Rush ed Emily Watson, abili non solo a dare consistenza ai rispettivi personaggi (i coniugi Hubermann), ma anche a far risaltare il talento della quattordicenne Sophie Nélisse, che forse qualcuno aveva già notato in Monsieur Lazhar. Sono le dinamiche famigliari che i tre mettono in scena a reggere il peso della vicenda e a creare il fil rouge, garantito nel romanzo dall’insolita voce narrante, la Morte. Che nel film purtroppo perde la sua dimensione critica e diventa una semplice voce fuori campo che nulla aggiunge, piuttosto banalizza.

Leggi la trama e guarda il trailer

Mi piace
La scelta registica di puntare sulle immagini per veicolare il messaggio e raggiungere il pubblico più giovane. La parte centrale del film, dove si esplora la passione di Liesel per la lettura.

Non mi piace
Il modo in cui viene usata la voce narrante. Alcune scene troppo artefatte e la caratterizzazione forzata di alcuni comprimari: laddove la finzione è palese il film perde in sincerità.

Consigliato a chi
A un pubblico giovane più che agli adulti, che potrebbero trovare l’operazione troppo edulcorata e patinata: la scelta di una regia didascalica è finalizzata e rendere il tema della Shoa accessibile e sopportabile anche ai ragazzi.

Voto: 3/5

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