Suite Francese: la recensione di Marianna Trimarchi
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Suite Francese: la recensione di Marianna Trimarchi

Suite Francese: la recensione di Marianna Trimarchi

Nel 2004 Suite Francese venne dato alle stampe con la firma di Irène Némirovsky. Era un manoscritto dalla grafia minuscola, lasciato al fondo di una valigia fino agli anni ’90, quando Denise Epstein, figlia della scrittrice, lo aveva letto per la prima volta credendolo un diario privato della madre.

Irène Némirovsky era morta nel 1942, deportata ad Auschwitz perchè di origini ebraiche. Allora, nemmeno quarantenne, era già una nota scrittrice negli ambienti parigini, dove viveva con il marito e le due figlie. Con l’invasione tedesca, la famiglia di Irène fu costretta a rifugiarsi in un villaggio in Borgogna, paesaggio che avrebbe dato vita a un’opera dal respiro monumentale, in cinque parti, ispirata nella forma e nella vocazione a Guerra e Pace di Tolstoj.

Di quel lavoro scritto durante la fuga e rimasto incompiuto per la morte prematura dell’autrice, si conservano i primi due racconti, Tempesta in giugno, una raffigurazione dell’esodo dei civili da Parigi dopo l’arrivo delle truppe di occupazione e Dolce, storia d’amore tra una giovane francese e un soldato tedesco. Del terzo atto, Prigionia, rimangono solo degli schemi, mentre degli ultimi due solo i titoli.

L’aura di incompiutezza, la venatura tragica del suo iter produttivo e il successo letterario tardivo, che hanno fatto di Suite Francese un vero fenomeno editoriale, sono la cornice imprescindibile in cui si situa la riflessione del regista Saul Dibb per portare sul grande schermo l’adattamento del romanzo. Fedele al secondo atto, Dolce, ma con un sapiente innesto della prima parte del testo, che regala al film una cornice in cui viene contestualizzato lo scenario della Francia occupata, Suite Francese mette a fuoco la vicenda di Lucile Angellier (Michelle Williams) che nell’attesa di vedere tornare il marito, vive insieme alla dispotica suocera (Kristin Scott Thomas) l’arrivo dei rifugiati da Parigi e, insieme a loro, quello dei tedeschi. Il paesino di Bussy, situato alle porte della Capitale, sperimenta l’invasione fisica e morale dell’esercito: a ciascun soldato, secondo il suo rango, viene assegnata una dimora. Nella villa di Madame Angellier viene dislocato l’ufficiale Bruno Von Falk (Matthias Schoenaerts), un uomo dai modi gentili che, con la sua presenza resa udibile solo dalla musica che tutte le sere suona al pianoforte, conquista e viene conquistato, in un processo di lento avvicinamento, da Lucile, con cui esplode, infine, una passione travolgente.

L’intenzione di trasferire dalla pagina allo schermo un racconto singolare dalla portata universale è percepibile nel film di Saul Dibb sin dalle prime battute: nel microcosmo di Bussy, dove la guerra viene volutamente lasciata sullo sfondo per perorare la causa delle vicende umane dei singoli abitanti, convivono, in nuce, tutti gli elementi utili a inquadrare tanto il paesaggio bellico del secondo conflitto mondiale, tanto lo spettro delle tipologie e dei caratteri che emergono in una situazione-limite come quella della guerra.

Complice da una parte la scelta di girare il film in inglese, per agevolare, a detta del regista, la comprensione della vicenda a un pubblico internazionale quanto più vasto possibile, dall’altra la presenza nel cast di volti di grande appeal e riconoscibilità (tra cui si distinguono Margot Robbie e Ruth Wilson), Suite Francese dichiara, negli intenti, quella vocazione universale propria del cinema nella sua forma più classica e quello spirito di unione umanitaria davanti a cui non ci sono dicotomie tra buono e cattivo, ma sfaccettature, non ci sono maschere stereotipiche, ma persone.

In questo senso il racconto della Némirovsky viene declinato, nella variante cinematografica, come metafora della Storia, narrata attraverso una vicenda minuta, ma a cui non manca alcun ingrediente perchè le sue proporzioni siano geograficamente ed eticamente più ampie. In Suite Francese, dunque, trovano espressione il tedesco dall’animo buono, che ha rinnegato la sua adesione alla guerra; il tedesco più sadico, che abusa della popolazione sottomessa, mettendo a dura prova la resistenza di una famiglia; l’aristocrazia francese che, da una parte, cerca la propria autoconservazione nel collaborazionismo con il nemico, dall’altra non nasconde l’intolleranza verso le classi meno abbienti. Le donne, poi, sono raffigurate con una triplice sfumatura: quella della strenua difesa dei propri ideali e dell’attaccamento ai propri valori familiari e politici (Ruth Wilson), quella della piena accettazione dell’altro non in quanto nemico ma come uomo (Margot Robbie) e, infine, in una sorta di sintesi benefica, quella del passaggio, in una crescita autocosciente, dalla sottomissione a una piena emancipazione di sé (Michelle Williams).

Nonostante lo sforzo di dare tridimensionalità ai personaggi e complessità al senso storico della vicenda, prevale tuttavia la riduzione delle varie posizioni a un insieme di tipologie umane, quasi di caratteri teatrali, dove ciascun ruolo funziona perfettamente nell’ingranaggio che porta i due protagonisti a innamorarsi l’uno dell’altro e ad andare incontro a un destino di giustizia. Certo, la capacità di tradire le aspettative dello spettatore, che un dramma melò ai tempi della guerra potrebbe facilmente ingenerare nei suoi clichè più hollywoodiani, riportano sempre Suite Francese nell’ambito di un’appropriazione europea del racconto e ricordano che quel romanzo è stato scritto e vissuto contemporaneamente al procedere della Storia. Ma questo particolare vantaggio, che pure regala un finale profondamente commovente, non basta a un film che mantiene l’ossatura del genere di appartenenza, con una dominante tragica in cui la passione e il sentimento vengono vessati dal destino.

Se dunque nelle ambientazioni (i luminosi paesaggi del Belgio), nei costumi accuratissimi e nelle musiche, scritte da Alexandre Desplat, Suite Francese ha il pregio di saper costruire con precisione il ritratto di un film di genere, a cui si aggiunge la capacità di rendere la condizione sociale della cittadinanza francese, gli intrighi, le invidie e i giochi di potere; manca alla storia la capacità di trascendere le coordinate del melò per restituire l’immediatezza del dramma, che rimane al contrario troppo composto, misurato e impeccabile.

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Mi piace: la capacità di drammatizzare, attraverso la rappresentazione di un microcosmo, uno spaccato sociale della Francia del tempo.

Non mi piace: l’eccessiva compostezza, che chiude il film nei margini del genere di appartenenza. Caratteri a volte poco tridimensionali.

Consigliato a chi: vuole vedere un dramma di guerra dal sapore melò, con un finale che commuove oltre ogni aspettativa.

Voto: 2/5

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