Survivor: la recensione di loland10
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Survivor: la recensione di loland10

Survivor: la recensione di loland10

“Survivor” (id., 2014) è il quinto lungometraggio del regista australiano James McTeigue.

E’ il cinema di genere, è il cinema che si vede con piacere, è il cinema che è ben strutturato, è il cinema con l’adrenalina giusta. Con una giusta di dose di componenti e qualche colpo di scena e una tensione abbastanza collaudata che ti fa restare sul filo di rasoio per il finale che (forse) aspetti. Il film di James McTeigue non ampia i discorsi del visto (e rivisto) e si pone nei binari predisposti per dare allo spettatore una storia consona, non eccessiva e con qualche gioco da eroi-cartoon e sentori di un cinema anni settanta. Un film, insomma, godibile e per nulla banale. In una Londra tra vicoli. metrò, sotterranei, scappatoie, tetti, scale interne e porte dismesse, il monito degli specchi e della vendetta si allunga fino alla fine con un congegno ora serrato, ora diluito, ora teso e ora facile. La suspense è sempre la partenza del colpo giusto e di un esplosione guasta-tutto. Con voce asfittica e riprese in correndo.
Nel cinema di livello medio e di intrattenimento con eccessi moderati e scrittura di sana compiacenza, la pellicola del regista australiano è prettamente ‘virtuosa’ per chi desidera lasciare nel cassetto un vero marchio d’autore e sguarnisce ogni memoria rutilante con ammasso di immagini originali o, per meglio dire, succulenti idiomi narrativi che rimangono impressi nella stessa.
Una concatenazione di imprimatur ansiogeni e schizofrenici per un linguaggio di ripresa esteso, allegro e. misteriosamente, capace di versi ardimentosi e sollecitanti. E il richiamo a ciò che si dice in altre pellicole, che s’adeguano, si mescolano, si immedesimano in un ‘tourbillon’ consunto e ‘sincopatamente’ già scritto. La dogana e il passaggio, il documento e l’attesa, la moglie e i dieci anni: tutto per esserci e aspettare, togliersi di mezzo dopo aver visto e toccato con mano. Il saper aspettare il momento giusto viene tirato bene e per le lunghe, ma al clou qualcosa scricchiola e ciò che lo spettatore attende si scioglie in un risaputa doppia parte mentre una mano aggrappata fa cadere nel vuoto (di una città in festa) il rigurgito di un film in chiusura che lascia soddisfatti per il tempo perso e con l’acquolina in bocca per quello che avrebbe potuto essere.
Kate Abbott (Mila Jovovich) lavora nell’Ambasciata statunitense di Londra e il suo compito è il controllo e la prevenzione di eventuali attacchi terroristici. I guai arrivano con l’arrivo di Bill Talbot nel controllo del passaporto. Kate non ci vede chiaro ma ciò che sembra trova nella fuga da tutto l’unica speranza per salvarsi. E’ nel mirino di molti per accuse che non può contraddire. E Londra diventa il disegno di una sceneggiatura da ‘inseguimento’ tra armi, botole, metrò e porte da aprire. Siamo dalle parte de ‘Il fuggitivo’ (The Fugitive, 1993 di Andrew Davis) e qui il ruolo è solo femminile (e il gusto della regia di mettere in gioco anche la ‘sua’ forza fisica).
L’incipit preparatorio (con la giusta dose di personaggi insanguinati) apre nel titolo la successione eventi che porta allo sconquasso-bomba (e morti) in stile ‘I tre giorni del Condor’ (Three Days of the Condor, 1975 di Sydney Pollack) fino a percussioni e idiomi conosciuti per un parte finale (l’attesa della mezzanotte per il capodanno) che ha lo stesso luogo mentale (non fisico) di ‘Strange Days’ (id., 1995 di Kathryn Bigelow) da Los Angeles a ‘Time Square’ di Manhattan.
Un film piacevolmente passatempo ma che lascia (ben) poco all’uscita dalla sala. Troppo viste e già segnate (da altre pellicole) le immagini per fare presa (e sedimentarsi) nella fantasia di opera a sé. L’Orologiaio Nash (Pierce Brosnan) e Bill Talbot (Robert Forster) manovrano gli scoppi in anticipo (colpi in canna continuamente) e la vendetta finale (colpo in ritardo) quando i secondi alla mezzanotte sono da contare per l’arrivo di Kate. Ciò che preme (il grilletto) è l’assoluta mancanza del ‘non visto’: tutto appare in vetrina (o quasi) e Nash è credibile (fino in fondo) quando modera le parole e si fa vedere in (misera) moderazione. Quasi nullo. E ciò che è oscuro dentro l’ambasciata (in un buio a-posteriori all’undici settembre) s’accartoccia sul film stesso con sciommiotamenti visivi, fughe ordinate, inventive minime e arrivi pilotati. Tensione che si arena in bassa frequenza per mancanza di una ‘vera’ struttura corposa. E la dimensione dei personaggi appare asfittica, imbambolata e, alquanto, miniaturizzata. Il bello che aspetti è di corsa e per un secondo appendi un quadro nuovo (di mano aggrappata) mentre un uomo cade troppo velocemente.
Angela Bassett (Maureen Cran), James D’Arcy (ispettore Anderson) e Emma Thomson sono da menzionare per un cast ricco e variegato e di cui la scrittura non riesce a dare (loro) il meglio.
La regia sembra ordinariamente in attesa, lineare e rituale con oca inventiva.
Voto 6½ (compagnia rilassante senza pensarci).

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