Mark Renton torna ad Edimburgo, ma sono passati vent’anni: Begbie è in prigione, Spud ancora drogato e Sick Boy nell’industria del ricatto pornografico. Forte e adulta disillusione per il sequel di Trainspotting, che abbandona l’acre amoralità del primo capitolo per ragionare sulle conseguenze di una drogata vigoria adolescenziale. Tutti lavorano bene e soprattutto Boyle, che si diverte a giocare al turista professionista sull’opera che lo ha consacrato, sfogando una rabbia creativa che sfocia in intuizioni cinematografiche strepitose: pedale sulla nuova carne al fuoco e leva sulle tonalità elettroniche del nuovo millennio, che aggiornano la sfrontatezza punk anni ’90 tanto dirompente nel primo capitolo. Il vero colpo di coda che rilancia in contropiede però è resistere alla sensualità dell’amante che si chiama nostalgia e non svendere una copia carbone dell’originale. Il risultato è cinico ma non banale: smontare la giostra dei ricordi per agguantare nuovi significati e riprogrammare gli orizzonti degli scannati corridori dal cuore grande e ammaccato. Il gioco vale la candela perché il tentativo non è quello di riscrivere un controverso manifesto generazionale, aggiungendo all’iniziale equazione di culto steroidi digitali e inutili riammodernamenti, piuttosto ragionare su quale sia la vera dipendenza di chi ha qualche ruga in più e qualche forza in meno: la giovinezza.
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