“The Accountant” (id., 2016) è il settimo lungometraggio dell’attore, sceneggiatore e regista di Long Island Gavin O’Connor.
Un cinema di genere dilatato in possibili strade e deviazioni: ogni scena pare a se stante e ciascuna struttura pare un altro film come tutto il corpo dialogante sembra un antefatto a ciò che la storia s’ingarbuglia da sé. Una pellicola sghemba in racconto, lineare nelle parti ma disdicevolmente piacevole nel percorso sommario: troppe insenature nel linguaggio non detto, nei volti nascosti, nelle menti reattive, nei ricordi e nella malattia che starnutisce violenza come ossimoro di un rapporto mai nato.
Christian Wolff è un matematico geniale che lavora come ‘contabile’ (‘accountant’ appunto) per alcune organizzazioni criminali. Il suo è un lavoro nascosto ma il Dipartimento del Tesoro è troppo vicino e la Divisione anti-crimine non fa che stargli addosso. La società ‘Living’ di robotica (‘solidale verso gli sfortunati’) gli chiede di mettere la contabilità a posto: ma la scoperta di un ammanco di svariati milioni di dollari gli creerà molti fastidi. E soprattutto il sangue, come mattanza, diventa l’arma giusta per eliminare i nemici.
La storia in verità è un avanti e dietro con linguaggi e incontri sofisticati, con flash back ridondanti, perversioni cervellotiche, facce alquanto lugubre e espedienti narrativi di lentezza o di velocità senza un marchio e uno stile consequenziale. E poi ci si mette anche l’arte come summa desiderio di potere economico: Jackson Pollock fa al caso con il suo astrattismo ‘viscerale’ (per gustarsi il finale) e gocciolante ‘silenzioso’(per i tanti vacui e lunghi discorsi).
Come in un tourbillon neuroni-co dove la mente di Christian sballotta a destra e a manca senza manifestarci propositi gentili e fattezze di complicità comprensiva distaccando lo spettatore da ogni rassomiglianza o viva partecipazione. Una spanna e anche di più la distanza tra le idee del matematico (e le sue intuizioni) e quello che si può percepire non coinvolgendoci davanti al grande schermo. Ecco forse il bucare lo schermo (come ogni tanto si dice) sarebbe utile per storie del genere e soprattutto per non addormentarsi dentro ad un’opera ‘oltre’ il murales del Pollock tenuto nascosto. E così il nascosto diventa chi guarda che allo spargersi di corpi insanguinati sul set prova un brivido di attenuazione e un gusto retrò per una pellicola che tenta il didascalico dentro una pallottola che tira l’altra (come fossero appunto ciliegine da regalo per onorare il biglietto).
Momenti di stasi con lento ‘surplus’ e di adrenalina con gioco sporco: pellicola che si annulla a vicenda e che invita al languido fervore di escandescenze ora minime o ora eccessive. In uno scompiglio di generi il trucco della sceneggiatura di Bill Dubuque è di enfatizzare il momento, di dilatare il set e di respirare ansie represse come una ‘safety car’ lungo il ‘gran-film’ che si vorrebbe percorrere (e costruire).
E ora di parlare di Ben Affleck e la recitazione. Si ha la sensazione (e forse di più) che Christian Wolff non è un personaggio facile e buttato lì con una scrittura contorta e poco incisiva ma l’attore riesce, nonostante una segmentazione nelle riprese, a entrare (quasi) a tutto tondo nel cliché dei volti del matematico (certo siamo molto lontani dal ‘Cane di paglia’ -1971- di Sam Peckinpah con Dustin Hoffman o per essere più vicini al volto di Russell Crowe in ‘A Beautiful Mind’ di Ron Howard: dove le faccende normali nascondono delirio e genialità visiva).
Ci sono molte vie di inizio per concludere un film in un susseguirsi misto-felice di uccisioni per ultimare un lavoro: del protagonista nel film. E i due fratelli si consegnano tra macerie, fumo, pallottole e scambio di affetto stranissimo e poco incline al sentimentalismo. Si diceva molte vie di partenza o quasi: famiglia, fratelli, genitori, autismo, problemi, intelligenza, rapporti, discorsi, danaro, potere, arte, amore e amicizia. Forse troppo le idee che si riassumono in una parte finale che vorrebbe essere circolare pensando alla crescita umana e non solo di Christian Wolff (nome che fa il doppio ad un attore o un filosofo tedesco…).
Il ‘vecchio’ John Lithgow (nel ruolo di Lamar) ha dalla sua una certa caratura che rende il suo recitare giusto e credibile.
Un film non delineato e imperfetto, vedibile nelle parti ma stralunato nell’insieme pare il ‘dripping’ di Pollock pare la vera chicca del film se ci fosse il gusto di raccontare la sua storia (ma è appunto un altro film).
Regia incerta sul da farsi tra una scena e l’altra.
Voto: 6+/10.