In un futuro prossimo in cui regna suprema l’intelligenza artificiale, le emozioni umane sono ormai considerate una minaccia. Per liberarsene, Gabrielle (Léa Seydoux) deve purificare il suo DNA: si immerge quindi in vite precedenti, dove rincontra Louis, suo grande amore (interpretato da George McKay, che ha sostituito il compianto Gaspard Ulliel). Ma la donna è vinta dalla paura, un presagio che la catastrofe è vicina.
Il regista francese Bertrand Bonello è in una fase di grande vitalità della sua produzione artistica, e a dimostrarlo c’era già il suo film precedente, Coma, che elaborava gli strascichi della pandemia di COVID-19 attraverso un’idea di sperimentalismo cinematografico e poetico in grado di rivolgersi con estrema sensibilità tanto alla messa in scacco del presente quanto alla percezione del mondo delle nuove generazioni.
Per il suo nuovo film, The Beast (anche se è preferibile l’originale La Bête), presentato in Concorso a Venezia 80, ha alzato ancora di più l’asticella in un lavoro che tenta di parlare dei maggiori timori legati alla contemporaneità scegliendo però uno stile astratto e teorico maggiormente evocativo, in cui il cinema è il portale privilegiato per moltiplicare le possibilità e ipotizzare azzardi altrove impossibili da materializzare, alla stregua di quanto fatto – seppur con risultati artistici sideralmente più ingombranti, naturalmente – da David Lynch in Mulholland Drive e da Leos Carax in Holy Motors, film-chiave sulla performance surreale della corporeità nelle maglie del postmoderno .
The Beast è costruito come un mosaico spazio-temporale che abbraccia tre epoche diverse e altrettanti anni (1910, 2014, 2044), che sono anche dimensioni attraverso le quali raccontare come, col tempo, la nostra percezione dell’umano sia diventata più disincarnata e sia destinata a esserlo sempre di più. Tanto per quel che riguarda la sintomatologia delle nostre individualità fisiche, esposte alle infinite tentazioni e lusinghe del digitale, quanto per la pervasività sempre maggiore delle intelligenze artificiali, fino ad arrivare alla minaccia già evidente e pressante dei cambiamenti climatici, tema che chiudeva in maniera icastica e folgorante proprio Coma.
Bonello si è ispirato, ne La Bête, a una novella di Henry James del 1903, La bestia nella giungla, ma il suo è uno stile che ha poco di letterario e tutto di cinematografico, cerebrale, intellettualistico (viene scomodato anche L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais), tanto che per qualche palato potrà perfino risultare facilmente respingente. Il grado di fascinazione e il mind game messo in piedi valgono però decisamente la candela, anche perché il modo in cui la distopia più cupa e tentacolare e il melodramma tutto mentale arrivano a dialogare, con coraggio, limpidezza e straordinaria coscienza dei propri mezzi, ne fanno un film assolutamente da non mancare.
Bonello ha detto di voler realizzare con The Beast un film che tenesse insieme “l’intimo e lo spettacolare, classicismo e modernità, il noto e l’ignoto, il visibile e l’invisibile. Parlare, forse, del più straziante dei sentimenti, la paura dell’amore. Il film è anche il ritratto di una donna, che diventa quasi documentario su un’attrice”. E se Godard diceva che ogni buon film e di finzione è anche, inevitabilmente, un bel documentario su degli attori, non si può negare che il fiore all’occhiello de La Bête sia la magnetica e iper-stratificata interpretazione di Léa Seydoux, abilissima, fin dalla prima sequenza in cui appare spaesata in un gigantesco green screen, a spogliarsi di ogni orpello per abbracciare un urlante, e rabbioso e fragilissimo trasformismo invisibile, di pari passo alla protagonista e al suo rivivere le proprie vite precedenti.
Foto: Les Films du Bélier, My New Picture, Sons of Manual, Arte France Cinéma, Ami Paris
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