The Brutalist, il tormento e l'estasi di un architetto geniale. La recensione da Venezia 81
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The Brutalist, il tormento e l’estasi di un architetto geniale. La recensione da Venezia 81

Il regista Brady Corbet conferma tutto il suo talento portando in Concorso il suo nuovo film con protagonista Adrien Brody, smisurato affresco in 70mm su László Tóth, un geniale architetto ebreo, sopravvissuto all’Olocausto, che fugge dall’Ungheria dopo la Seconda guerra mondiale per raggiungere gli Stati Uniti

The Brutalist, il tormento e l’estasi di un architetto geniale. La recensione da Venezia 81

Il regista Brady Corbet conferma tutto il suo talento portando in Concorso il suo nuovo film con protagonista Adrien Brody, smisurato affresco in 70mm su László Tóth, un geniale architetto ebreo, sopravvissuto all’Olocausto, che fugge dall’Ungheria dopo la Seconda guerra mondiale per raggiungere gli Stati Uniti

The Brutalist Brady Corbet recensione
PANORAMICA
Regia
Interpretazioni
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Colonna sonora

László Tóth (Adrien Brody) è un geniale architetto ebreo, sopravvissuto all’Olocausto, che fugge dall’Ungheria dopo la Seconda guerra mondiale per raggiungere gli Stati Uniti. Costretto dapprima a lavorare duramente e vivere in povertà, ottiene presto un contratto che cambierà il corso dei successivi decenni della sua vita e si ritrova a lavorare per il miliardario Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), intenzionato a finanziare dei progetti architettonici in Pennsylvania.

The Brutalist, il monumentale progetto che Brady Corbet ha portato in Concorso all’81esima Mostra del cinema di Venezia, è un film dalle ambizioni smisurate: un affresco storico e artistico, girato in 70mm VistaVision, che unisce la magniloquenza dei grandi affreschi del cinema americano classico alla riflessione sulle radici europee, e anche sioniste, degli Stati Uniti d’America, affrontate di petto e con una sregolata e funambolica consapevolezza dei propri mezzi cinematografici.

Nel film dalla torrenziale durata di 215 minuti con ouverture, epilogo e intermission si parla anche, ovviamente, delle origini di Israele e si affronta, con sguardo ora luciferino ora ovattato, al contempo congelato ed esaltato da una disperata e totalizzata ricerca della bellezza formale, la parabola industriale degli ebrei americani. Il regista de L’infanzia di un capo e Vox Lux guarda deliberatamente a Stanley Kubrick (come conferma lo schermo nero iniziale, alla maniera di 2001) e finisce per fare la sua personale versione de Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, collocandosi infine, per portata e risonanza del ritratto capitalistico, dalle parti de Il petroliere (pur con una notevole dose di manierismo in più).

The Brutalist è infatti un film-cattedrale sui tormenti di un artista, i suoi furori ed eccessi, i rapporti ancestrali e violenti con la committenza ma anche con i propri familiari, segnati dalla tossicodipendenza dall’oppio di László ma anche dalla sua dedizione maniacale al lavoro e alla messa a punto della sua visione dell’architettura e del mondo, che per lui – e non potrebbe essere altrimenti – sono ovviamente la stessa cosa, specie nel brutale, destabilizzante coercitivo squilibrio di forze che lo agitano, citando Goethe (“Non esiste schiavo più grande di chi si ritiene libero senza esserlo“).

Corbet s’ispira liberamente al romanzo La fonte meravigliosa di Ayn Rand, dal quale era già stato tratto il film di King Vidor del 1949, facendo un film su un visionario architetto analogamente a quanto realizzato da Coppola col suo ultimo Megalopolis. All’attore e cineasta classe 1988, reso noto all’età di 16 anni dall’interpretazione in Mysterious Skin di Gregg Araki, interessa soprattutto la tetragona ferocia del potere e della creazione, elevata a potenza da una messa in scena sontuosa, che si concede più di una divagazione jazzistica e diverse sequenze di abbacinante bellezza figurativa.

Nella parabola umana, storica, artistica ed esistenziale di The Brutalist è impossibile però non fare i conti, oltre che con la ruvida e sfaccettata interpretazione di un ritrovato Adrien Brody, con la componente metafisica delle creazioni di Laszlo, costantemente sedotte da materiali grezzi e squadrati come il marmo e l’acciaio (memorabili le scene italiane a Carrara), ma anche in grado di intercettare le sezioni auree del divino e di capovolgere la Statua della Libertà in una spericolata, azzardata e nichilista rilettura della storia e dell’arte americana da una prospettiva dannatamente e disperatamente eurocentrica.

Foto: Brookstreet Pictures, Kaplan Morrison, Andrew Lauren Productions

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