Vi ricordate cosa successe a Blade Runner, sottovalutato per una decina d’anni e poi riabilitato come capolavoro? Ecco, questa non sarà forse la sorte che toccherà all’ultimo film di Ridley Scott, Il procuratore – The Counselor, ma di sicuro il giudizio sul film va aggiustato rispetto a quello diffuso da gran parte dei media Usa, perché si situa comodamente all’interno di una filmografia che negli ultimi anni si sta concedendo diverse sperimentazioni (vedi Prometheus nel campo sci-fi). Il procuratore è tutto fuorché un brutto film, come alcuni hanno detto Oltreoceano, ma potrebbe lasciare spiazzato lo spettatore abituato ad altro genere di thriller, ad altri ritmi.
Soprattutto, potrebbe deludere le aspettative di chi, di fronte a un cast all-star come quello messo in campo (Michael Fassbender, Penélope Cruz, Brad Pitt, Cameron Diaz, Javier Bardem) non si aspetta conversazioni sugli snuff-movie, crudeli metodi di tortura latinoamericani (l’agghiacciante “bolito”) cadaveri sotto formalina, ma una pellicola patinata e glam. E il glam in effetti non manca, soprattutto per lo sfondo fatto di appartamenti iperlussuosi e hi-tech, gli abiti costosi, i ristoranti chic eccetera. A mettere a dura prova potrebbero essere i lunghi dialoghi dei personaggi, speech verbosi che spiazzano perché lunghi, densi, filosofici. Del resto quella vecchia volpe di Scott si è affidato per la sceneggiatura allo scrittore statunitense più cult del momento, alias il Premio Pulitzer Cormac McCarthy (Non è un paese per vecchi), lasciandogli campo libero e aspirando volutamente a creare un oggetto straniante e misterioso.
McCarthy, al suo primo script per il grande schermo, e Scott fondono l’humour nero caratteristico dell’autore a uno scenario da incubo, in cui un avvocato rispettabile (Fassbender) perde il controllo su quella che doveva essere un’operazione illegale senza rischi. Il legale, per guadagnare qualche spicciolo in più, si era rivolto a degli intrallazzatori (Bardem e Pitt) che lo avevano coinvolto in un losco affare, all’apparenza un guadagno facile, piazzando 625 kg di cocaina per un ammontare di 20 milioni di dollari. Ma l’affare va in malora e i nuovi interlocutori dell’avvocato sono narcotrafficanti con un senso dell’umorismo un po’ particolare, che non accettano che il loro denaro vada in fumo senza che qualcuno paghi…
Il film è un’implacabile riflessione morale, sottolineata con dosi massicce di cinismo e scene violente, sull’etica personale e l’importanza delle scelte, in conseguenza delle quali è facile precipitare in un inferno senza via d’uscita. Specie per coloro che pur avendo già molto non si accontentano e sono disposti a imboccare la strada sbagliata pur di ottenere sempre di più.
Uno strattone brusco rispetto al thriller tradizionale, dove a ogni angolo del plot il protagonista può riprendersi in mano le redini del proprio destino. E qui sta il pregio maggiore del film, in quel senso di ineluttabilità e di angoscia che inchioda lo spettatore dalla prima scena, nell’attesa di qualcosa di terrificante ma anche con la speranza che qualcosa di buono possa accadere anche all’ultimo minuto. Ma il film non lascia dubbi riguardo al fatto che una volta imboccata una certa strada (l’anziano capo dei narcos lo ripeterà senza sosta a Fassbender: “Tu credi di essere a un bivio, ma al bivio c’eri all’inizio, allora potevi ancora cambiare le cose” ) è impossibile resettare, tornare indietro, e ci si potrà solo sedere ad aspettare gli esiti inevitabili delle mosse fatte. A chi ha sbagliato resta solo la magra consolazione della metabolizzazione della ferita, della rielaborazione della perdita, ma non la redenzione. Una morale agghiacciante e ineluttabile quella offerta da McCarthy.
Quanto alle intepretazioni: Fassbender impeccabile come sempre, Brad Pitt (con tanto di capello texano a omaggiare il ruolo che lo lanciò in Thelma e Louise, sempre di Scott) ormai sempre più affezionato a personaggi sui generis (vedi Cogan), Bardem scivola più volte nella macchietta, laCruz convince anche se il suo ruolo è accessorio.
A dominare lo scena e intrappolare lo sguardo saranno sicuramente l’eleganza kitsch e la spietatezza della Diaz, regina di ghiaccio consumata da una vita dove ha provato di tutto. Un ruolo da dark lady da registrare negli annali (già cult la scena del pesce palla), per cui l’attrice non ha paura di mostrare le rughe e di rinunciare alle mossette che l’hanno resa famosa.
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Mi piace: quel senso di tragedia sempre imminente che inchioda alla poltrona. I dialoghi raffinati
Non mi piace: alcune interpretazioni “buttate via”, come quella di Bardem
Consigliato a chi: non è in cerca di un thriller convenzionale e ai fan di McCarthy
VOTO: 3/5
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