Tutto un certosino arpeggio questo The Danish Girl, scenografato divinamente, squisitezze impressionistiche, recitato meglio, ma terribilmente fragile quanto i suoi personaggi, appendici della Storia, profili sconosciuti annodati nel fagocitante magma degli eventi. Che sventura però: tale episodio è drenato nella raffinatezza che ammutolisce la afflizione corporale, un peccato veniale. Film che sacrifica l’evento al racconto, è la storia d’amore ispirata dalle vite degli artisti Lili Elbe e Gerda Wegener a Copenaghen nel 1920, secondo l’evoluzione del rapporto coniugale, della storia pioneristica del transgenderismo. Si aggancia bene agli odierni snodi civili la rivoluzione del protagonista, centro di una narrazione effemminata, che non disprezza certe, inattese, derive freudiane sotterrate tra gli acrilici, tutta l’arte fa da terzo incomodo, e che sfuma, attenua in fruscio un potenziale riporto di massacrante realismo; invece il regista inglese pare più per le burlesche ed inquietantemente ignoranti analisi psichiatriche, per la lente al carboncino del risveglio emozionale, dell’agnitio mentale, “mi ha fatto donna in corpo di uomo” si dirà ad un punto, quella che s’accoppia con la fenomenologia del conoscersi, invece che di una crogiolante violenza psichica che scuota e irrompa a frattura della formalità, della compostezza dei corpi. Irretito tutto in questa cerebralità posticcia, seppur a tratti gustosa, il fascino proprio del reale, del cambiamento, che sboccia e marchia, è meno spesso della sua cornice. 2/4
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