Era dal 1997, dai tempi di The Jackal, che Richard Gere non recitava in un thriller. In mezzo, molte pellicole dimenticabili, un paio molto apprezzate (Chicago e Hachiko) e più in generale il tramonto di una stella che conobbe il massimo fulgore tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.
Esattamente il periodo di riferimento di questo The Double – Doppia identità, tardivo ritorno al cinema di spionaggio del Brizzolato nonché primo film di Michael Brandt, che già scrisse Wanted e Quel treno per Yuma insieme al sodale Derek Haas e che qui esordisce dietro la macchina da presa. Quando diciamo “periodo di riferimento”, però, non parliamo del frame temporale in cui è collocata la vicenda di Paul Shepherdson (Gere), ex agente CIA poco dignitosamente uscito di scena dopo una missione fallita. Parliamo piuttosto di immaginario ed estetica: nonostante si svolga ai giorni nostri, The Double potrebbe essere stato girato nel 1990, quando l’URSS era ancora acerrima nemica degli States e il terrore provocato dalle parole “spia sovietica” era al suo apice. Purtroppo, questa discronia significa anche che siamo di fronte a un film tanto vecchio da essere stantìo.
In quanto ex agente della CIA in un film, Shepherdson è “condannato” a tornare in attività per mettere in moto gli eventi: e lo fa, dopo che un senatore americano viene ucciso con un modus operandi che ricorda pericolosamente quello di Cassius, killer russo attivo negli anni Ottanta. Shepherdson ha con lui un conto in sospeso, dal momento che Cassius è riuscito per anni a sfuggirgli, ed è su questo che fa leva il direttore della CIA Tom Highland (Martin Sheen) per convincere Paul a tornare in attività. Lo fa affiancandogli un giovane inesperto ma appassionato di assassini sovietici, Ben Geary (Topher Grace): i due danno vita alla più classica delle coppie da buddy cop movie, con Gere a recitare la parte del burbero sarcastico e Grace quella dell’entusiasta. Ruoli che si fanno più sfumati man mano che il mistero sull’identità di Cassius si va disvelando; ci fermiamo qui, però, perché dire di più sulla trama del film significherebbe spoilerarla – anche se a onor del vero ci pensa già il trailer a farlo.
Vale piuttosto la pena di spendere due parole sull’aurea mediocrità nella quale galleggia il prodotto: dalla regia anonima alla fotografia in cui domina uno smortissimo color grigio cemento, dall’alchimia inesistente tra i due protagonisti alla banalità con cui sono ritratti persino i personaggi secondari. Più irritante di tutto il resto, però, è l’insistenza su continui colpi di scena, volti a riattizzare l’attenzione dello spettatore ma che stuccano presto e fanno perdere impatto anche alla rivelazione finale.
Saremmo stati disposti ad accettare una regia sottotono o gli attori non all’altezza: in fondo stiamo parlando di un esordio, e un bel mistero da risolvere è sempre divertente. Ma quando a mancare è la scrittura – soprattutto se le penne dietro al film dovrebbero essere di qualità –, non rimane nulla da salvare.
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Mi piace
I titoli di coda. Le scene in cui compare la moglie di Ben, alias Odette Yustman.
Non mi piace
I coup de theatre che si susseguono senza soluzione di continuità e perdono di logica e interesse all’incirca a metà film. L’alchimia tra i due protagonisti è totalmente assente. La regia, quando va bene, è insignificante.
Consigliato a chi
Ha tanta nostalgia degli anni Ottanta, quando i russi erano cattivi e il ritmo dei film più rilassato – o, in questo caso, soporifero.
Voto: 1/5
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