Ci sono tante storie del cinema, mica una sola. Per esempio, e solo per restare in America: accanto a quella dei Blockbuster e a quella del grande cinema d’autore, ce n’è una terza, a cui di rado si pensa in questi termini, ed è quella del cinema indipendente che lavora sulla narrazione e sul territorio. Senza la tentazione dell’avanguardia, senza tentare cioè di inventarsi un linguaggio nuovo, ha tutto il tempo e l’interesse per lavorare sulle storie e sui posti che le ospitano. È un cinema che dà spesso buoni film – e penso a La fuga di Martha o a Un gelido inverno – e a volte veri e propri capolavori (Take Shelter, uno dei pochi “da isola deserta” degli ultimi anni), e c’è in genere molta più America qui che negli altri filoni messi insieme.
Ecco: dopo tre film – Another Earth, Sound of My Voice e questo The East – toccherà ammettere che in questo particolare tipo di cinema, un posto non trascurabile ormai lo occupa stabilmente la splendida Brit Marling, 31 anni, lunghi capelli biondi, fisico da indossatrice e portamento da professoressa universitaria. Si è ritagliata un ruolo abbastanza singolare, quello dell’attrice-autrice, e piuttosto che lasciarsi corteggiare dal cinema mainstream – il massimo che si è concessa sono due thriller vecchio stile come La regola del silenzio e Arbitrage -, insiste a scriversi i film da sola, riservandosi il ruolo di protagonista. La interessano, in particolare, le sette, ovvero le sottoculture, e dopo aver raccontato di una microcomunità dedita a un bizzarro misticismo sci-fi in Sound of My Voice, ha costruito The East attorno a una “più convenzionale” congrega di eco-terroristi. Lei, in particolare, è un’agente di una multinazionale dello spionaggio industriale che si infiltra nel gruppo anarchico per raccogliere informazioni sui prossimi obiettivi, informazioni che vengono successivamente rivendute a peso d’oro. È una conservatrice, alto-borghese, cattolica, che si ritrova a vivere tra i boschi in mezzo ad altri figli dell’alta società, convertitisi però a una clandestinità tribale e aggressiva in seguito a una serie di traumi che il film svela poco a poco. L’esperienza la cambia, cambiando naturalmente anche la sua prospettiva e i suoi interessi sulla missione.
Il film è il thriller di denuncia anti-capitalista che ci si aspetta, nel senso che non inventa – appunto – forme nuove per raccontare questa storia. Ma ha parecchie belle trovate di sceneggiatura (la scena del pasto, quella dello champagne, la sepoltura), e un livello di intelligenza nella scrittura sempre piuttosto alto. Nobilita, in pratica, la tradizione cui si appoggia, e ci sembra un cinema che va salvaguardato, quindi visto. Ha persino, ed è forse l’aspetto più interessante, l’ardire di proporre con nonchalance una terza via tra capitalismo ed anarchia: un’etica cristiana, poco dogmatica e molto mistica, presentata come neoumanesimo e serbatoio di buon senso. Irriterà qualcuno, quindi preparatevi.
Guarda il trailer e leggi la trama del film
Mi piace
La sceneggiatura brillante, che lavora sui luoghi comuni ma è capace di inventare anche momenti di cinema originale
Non mi piace
I film di Brit Marling si fermano sempre qualche passo prima di diventare memorabili
Consigliato a chi
Dal cinema americano pretende altro, oltre ai Blockbuster milionari e alle commedie demenziali
Voto: 3/5
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