Andate a vedere The End of the tour perché dice molto con molto poco. Una macchina, qualche bar, qualche strada, due attori, niente di più, sono una lezione squisitamente informale sussurrata a tutto spiano: la semplicità, nel posto giusto al momento giusto, è una carezza amichevolmente scomposta; come due ruote che scivolano dolci nella terra del bigerà tan life, anche le piccole, grandi conversazioni si agitano nell’abitacolo della macchina che scavalca le cittadine e i fast food. Le nuvolette di fiato nel freddo del 1996 sono di tale David Lipsky (eccellente Eisenberg), insicuro e ambizioso giornalista con le idee confuse tra i ricci, e tale David Foster Wallace (superlativo Siegel), insicura e complessa rock star della letteratura americana, che tiene la bandana per non perdere la testa, tali protagonisti di un viaggio arrotolato sul nastro. La mangiacassette si srotola dal the end al the tour, riavvolgendo il groviglio dei sensi di una personalità senza bandolo. Tutta freschezza che idrata l’aridità del biopic, segnandone il balzo da genere sul ricordo a genere del ricordo, da appannato specchietto realistico a sintetizzatore di dirompente calma, molto più che narratore di vita, invece cantore di quella linfa che scorre e si deposita dentro e che vivifica e distanzia.
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