UN’INTIMA LETTERA D’AMORE DI SPIELBERG AL SUO PASSATO, ALLA SUA FAMIGLIA E AL CINEMA, IN UN FILM CHE TRASFORMA IL SENSO DELLO STUPORE PER LE IMMAGINI IN MOVIMENTO IN PURA POESIA
“I film sono sogni, che non dimenticherai mai”
I film. I sogni. Entrambi veicolo di immagini e immaginazione. Entrambi veicolo espressivo della parte più profonda, autentica, intima della nostra persona. Pari solo alla forza espressiva del Sacro. A causa di questo stretto legame tra di loro, la Settima Arte si rende la più completa delle altre arti o perlomeno quella che più delle altre è molto vicina a catturare la quintessenza della realtà e del nostro Io.
E tanti sono stati i grandi cineasti che con le immagini dei loro film sono riusciti a catturarci, a ipnotizzarci, per poi entrarci nell’animo e mutare il nostro pensiero e le nostre emozioni.
Uno di questi è il grande Steven Spielberg (e non lo dico solo da fan di lungo corso), e il suo “The Fabelmans” adempie compiutamente al suddetto ruolo.
La nuova pellicola di Steven Spielberg è in sostanza sia un potente atto d’amore per la Settima Arte, un sentito omaggio a quella che è stata e continua ad essere la più grande ragione di vita dello stesso regista; sia un intenso racconto personale, ispirato alla sua infanzia e adolescenza quando il suo talento da cineasta era ancora agli albori. Non una semplice opera semi-autobiografica dunque, ma qualcosa di altro e di più interessante, coinvolgente, affascinante. Oltre il dato autobiografico, oltre il romanzo di formazione cinematografica, riesce ad essere metacinema e ad evocare l’autorialità nel fare-film: è una confessione privata che raccoglie tutte le pellicole del regista rendendosi inoltre grande lezione di cinema.
Attraverso la storia di Sam Fabelman che fin da bambino si avvicina alla magia del cinema e se ne innamora, Spielberg si racconta e ci racconta le sue origini, cercando di mettere in scena, dopo averlo catturato, quel senso di incantevole/meraviglioso/magico che è il mettere per immagini una storia. Qualsiasi tipo di storia. E a restituire e far provare anche a noi spettatori almeno un po’ di tutto quel suo personale incantato stupore e fascino, passione ed entusiasmo, non tanto nel poter creare film quanto di riuscire a godere della loro magica e attrattiva visione, soprattutto se si vive quest’ultima al buio di una sala nell’esperienza eccitante, onirica e irripetibile dettata dalla luce del grande schermo di una sala cinematografica. E il cinema al quale è legato Spielberg è quello che nasceva analogico, che si muoveva sul supporto delicato della pellicola, che risuonava del rumore ritmico del proiettore che girava: è questo calore, questo sentimento, questa poesia di un tempo passato che il film ci comunica. Anche chi non ricorda la prima volta che ha visto un film al cinema nella propria vita, di certo ne è rimasto segnato e continua a esserne rapito ogni volta che le luci si spengono e la magia incomincia. E’ impossibile rimanerne indifferenti, è impossibile non perdersi in un film nel buio di una sala in quella che generalmente rimane in sé un’esperienza formativa, esaltante e/o sconvolgente.
Si diceva della vocazione di una vita. La dedizione costante ed energica, l’impegno accorato e sincero nel realizzare opere cinematografiche che gli rifacessero rivivere/riassaporare quella primigenia emozione da lui provata da piccolo proprio durante la visione di un film sul grande schermo della sala, è questo il più affettuoso regalo che Spielberg vuole fare a noi spettatori dopo quell’altrettanto dono che egli stesso ha ottenuto dalla vita, dalla propria indole, dal naturale talento, dai genitori.
Infatti, è solo dopo aver ricevuto in regalo una cinepresa che il piccolo Sam sperimenta la possibilità di salvare immagini su pellicola, la capacità di poter creare storie, trasfigurare/reinventare e/o evadere così (dal)la limitata/nte realtà, e infine l’illuminante comprensione che questa passione viscerale (non riduttivo hobby, ribadito da lui con veemenza) da trasformare in professione, sarebbe stata la sua strada, la sua vocazione, lo scopo ossessivo di una vita, oltre che di quest’ultima il motore vitale e salvifico.
Creare storie, trovare la maniera giusta per narrarle, fa sentire bene Sammy ( Spielberg si è sempre definito uno storyteller prima ancora che un regista, e il titolo “The Fabelmans” in lingua inglese suona tanto come fable-man → uomo che narra favole), lo rende artefice di un qualcosa di speciale, eccezionale nella sua particolarità artistica e industriale, ma anche importante e piacevole in sé e per sé perché in grado di rendere molto coinvolti nell’animo anche gli altri. Lui ha ben compreso che l’importante è seguire il proprio cuore, i propri sogni, anche malgrado avversità e drammi, paure e presunte responsabilità, il rischio altrimenti è di ritrovarsi a dipendere da un qualcosa che non ci appartiene e che ci annullerà.
Il film così non è solo la storia d’amore tra un bambino e l’ambiente del cinema, ma diventa anche un convinto invito a perseguire con passione e costante impegno un qualcosa che si ama veramente.
Il piccolo protagonista Sam Fabelman ha l’intelligenza e la fermezza del padre ingegnere, ma soprattutto la vena artistica e la fragilità caratteriale della madre pianista (professionalmente mancata), l’unica ad invogliarlo e spronarlo nella vocazione. Questo estro creativo gli crea un forte combattimento interiore perché Sam non vuole deludere il padre che lo vorrebbe invece al college. Questo dilemma individuale rappresenta la condizione da dover vincere, il motivo per cui poi molti artisti abbandonano tutto. E il piccolo protagonista riuscirà a superare tutto ciò col dramma famigliare vissuto sulla propria pelle, paradossalmente nella traumatica esperienza della separazione dei suoi genitori (Sam, adolescente, scoprirà nel flusso dei suoi fotogrammi aspetti insospettabili della vita dei suoi genitori). Il padre vorrebbe seguire una promozione a Los Angeles; la madre vorrebbe restare a Phoenix. Il trasloco diventa inevitabile, il divorzio pure. E’ quasi palpabile il dolore provato e descritto da Spielberg: dolore che caratterizzerà la sua adolescenza e la sua personalità futura, e che gli farà perdere e ritrovare quel rifugio magico che aveva trovato per mezzo della sua cinepresa. In tal senso questa godibile, emozionante e toccante pellicola assume anche i contorni poetici e al tempo stesso riflessivi di un’autentica lezione di vita, più che un sincero tributo ai natali (cinematografici) del grande regista americano.
La sceneggiatura di questo racconto intimistico è stata scritta da Steven Spielberg e dal drammaturgo Tony Kushner, premio Pulitzer candidato all’Oscar per le sceneggiature di “Lincoln” e “Munich”.
Spielberg ritorna alla scrittura di una sceneggiatura completa dopo 20 anni, dai tempi di “AI – Artificial Intelligence” (2001), e nella sua carriera ha scritto oltre a questi soltanto “Incontri ravvicinati del Terzo Tipo” (se si “escludono” gli script dei suoi primi cortometraggi e i soli soggetti di lungometraggi come “Sugarland Express”, “E.T.”, “Poltergeist – Demoniache presenze” e “I Goonies” ).
Nel cast compare Gabriel LaBelle che interpreta benissimo il ruolo del piccolo Sam; David Lynch (alla sua prima collaborazione con Spielberg) e Judd Hirsch (entrambi in ruoli e sequenze fondamentali); mentre i bravissimi Paul Dano e Michelle Williams sono rispettivamente il padre e la madre di Spielberg. E la Williams qui è davvero notevole, credibile e pienamente convincente nella sua interpretazione.
Davanti al loro bambino, i due genitori assumono e fanno valere ognuno il proprio ruolo influenzante: la tecnologia dal lato paterno, la poesia da quello materno. Il concreto e l’astratto. La scienza e l’arte. La realtà riprodotta/rappresentata e l’immaginario evocato. Sono queste le due polarità da cui sempre è stata scissa l’esperienza cinematografica, sin dai tempi dei fratelli Lumière e di Georges Méliès. E Spielberg le riunisce insieme in un’unica materia. E infatti, più dell’influenza dettata dai suoi genitori, sarà proprio la visione del film “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. De Mille a conquistare e condurre il piccolo Sam tra le mani della Settima Arte, facendogli girare subito western ed epopee belliche nel deserto dell’Arizona con figuranti amici e sorelle, e, dopo, negli anni, a farlo diventare il grandissimo regista che conosciamo e che ci ha regalato pellicole indimenticabili ed epocali.
Nella sequenza fulcro che va dalla visione del film di De Mille al piccolo Sam che riprende lo schianto del trenino giocattolo, si racchiude tutto il senso di quest’opera ma anche la più cristallina sintesi della fondamentale funzione-cinema: essa non fa altro principalmente che proiettare sul grande schermo i nostri sentimenti più viscerali, desideri, sogni, paure, angosce, traumi, sensazioni positive e negative, pensieri e stati d’animo, al solo fine di farcene prendere consapevolezza e al tempo stesso di mantenerle a distanza, al di fuori di noi, come se lo stesso schermo accorresse a protezione del loro effetto nella nostra anima. Il cinema insomma (tra le tante sue funzioni) diventa strumento diagnostico quando fa emergere fatti (o cose) della realtà (attorno e interiore a noi stessi) che non avremmo voluto/dovuto/potuto sapere (e in tal senso è simile all’esperienza del sognare), ma anche oggetto “terapeutico” quando ci difende da questi ultimi e si offre a noi come una sorta di rifugio dall’epifania/irruzione traumatica del reale.
Nelle immagini che intravedono nella realtà una dimensione presente ma sconosciuta (e visibile solo in un secondo momento, fotogramma dopo fotogramma), per Sam Fabelman c’è l’origine del proprio lavoro, ma anche l’inevitabile fine dell’innocenza (la fine dell’innocenza: tematica che tra l’altro caratterizza anche la filmografia del grande David Lynch, non a caso qui significativamente presente in tal senso, oltre che per raffigurare quell’altro grande regista che più di ogni altro a Hollywood detiene il record di maggior statuette degli Oscar vinti per la sola miglior regia, John Ford, e che chiude la pellicola di Spielberg offrendo un ulteriore sugello al senso complessivo dell’intera opera con una preziosa lezione di regia/cinema…).
Nel costante tentativo di mediare dunque tra la dimensione reale e la dimensione immaginaria, tra la prospettiva materiale e quella immateriale, la Settima Arte diventa soprattutto una questione di posizione, di angolo in cui posizionare la cinepresa per “(ri)prendere” e determinare di conseguenza il valore di un’immagine o il potere della sua gestione/manipolazione. E in tal senso, Spielberg stesso nella sua intera filmografia ha scelto i pertinenti punti di vista da cui creare immagini, al solo fine di proteggersi dal dolore… L’amore per il cinema è puro motore dell’immaginario in questa pellicola, è forza che incanta, che modella tutto ciò che racconta in qualcosa di meraviglioso (reso possibile qui grazie alla magistrale e superlativa regia di Steven Spielberg): tutte le scene sono trasfigurate da un senso di stupore e di sentimento per quel che descrivono – dagli episodi di bullismo di matrice antisemita vissuti da Sam a scuola, ai primi amori; dall’esaltazione artigianale per i filmini in Super 8 da lui realizzati in casa al commovente e memorabile epilogo. A fare da ulteriore e prezioso collante a tutto questo fascino visivo, narrativo e sensoriale, accorrono anche le musiche di John Williams, la fotografia di Janusz Kaminski e il montaggio di Michael Kahn e Sarah Broshar, tutti di assoluto valore.
“The Fabelmans” è uno dei migliori film di Spielberg, capolavoro o meno, è però senza dubbio uno dei suoi risultati più eccelsi, più di valore, e la sua ottima fattura qualitativa non scade mai neanche quando la puntuale e stratificata sceneggiatura diventa po’ troppo alterna nei toni e nell’esposizione, diventa un po’ troppo didascalica e (auto)contenuta/trattenuta in certi passaggi narrativi ed estetici (spiegabili forse a causa di alcuni pudori privati; o per farci capire il perché di certe scelte stilistiche adottate, di pellicole realizzate, di poetiche e tematiche da Spielberg affrontate negli anni nella sua lunga carriera), “imperfezioni” queste che diventano poca cosa davanti a sequenze che qui ci parlano di cinema in modo talmente preciso e con una potenza emotiva profonda, da colpire dritto al cuore.
E il segreto di questa sua riuscita (che poi è la vera anima di questo progetto) è che Spielberg, oggi, con la maturità dei suoi 75 anni, ha saputo meglio comprendere e accettare di più il suo passato, modellando la riscrittura veritiera e al tempo stesso la migliore reinvenzione possibile della propria infanzia con il cinema stesso. Cinema ora come funzione anche compensatrice a mancanze o brutture dell’esistenza. E non solo a quelle legate all’età giovanile di Spielberg, ma anche all’idea che lui aveva dei propri genitori. «Quando è che un giovane in famiglia inizia a vedere i suoi genitori come esseri umani? Nel mio caso, grazie agli eventi occorsi tra i 7 e i 18 anni, ho iniziato ad apprezzare mia madre e mio padre non come genitori, ma come persone reali», ha rivelato in un’intervista Steven Spielberg. I film sono come finestre sulla realtà, le più reali che ci siano.
E nel modo nel quale il regista americano riesce a parlare di sé e della sua famiglia, riesce anche a comunicare qualcosa di universale e importante sul cinema e sulla realtà.
François Truffaut diceva una cosa che ho sempre condiviso: «Fare un film è straordinario, significa migliorare la vita, “sistemarla” a modo proprio, significa continuare i giochi dell’infanzia», e ancora: «Il cinema è un prolungamento della vita, e la vita è un prolungamento del cinema»: ecco, io credo che Spielberg abbia fatto sue queste massime e le abbia codificate allegoricamente in questa sua opera (non a caso la figura di Truffaut, come interprete di un fondamentale personaggio, compariva emblematicamente anche nel film “Incontri ravvicinati del Terzo Tipo”, e con Spielberg ha sempre avuto in comune, a livello umano e cinematografico – altra cosa da me sempre condivisa della loro poetica/personalità – l’intenso elogio dell’innocenza fanciullesca, tipica dei bambini: quel candore che bisognerebbe preservare anche in età adulta, quell’innocenza che in qualche modo/forma non si dovrebbe mai perdere, e nel caso ritrovare e/o tutelare continuamente in noi, perché autentico strumento di salvezza per l’anima dell’uomo, ma anche nutrimento per mantenere sempre viva e vigorosa la nostra curiosità, la nostra sete di conoscenza, i nostri sogni/desideri/fantasie, il nostro stupore entusiasta nei riguardi di tutto il mistero inquietante e meraviglioso che ci circonda, la nostra vitalità e gioia di vivere…).
L’idea di cinema dunque come mezzo per raccontare, ma anche mutare e trasformare la realtà trasuda in ogni singola sequenza di “The Fabelmans”. Il film ci ricorda e ci fa (re)innamorare dello stupore e della meraviglia del cinematografo, e del fascino del suo linguaggio espressivo; delle sue infinite possibilità, della sua incredibile capacità di trascinare a sé.
Con “The Fabelmans” Spielberg parla di (e a) tutti quelli che amano (o dovrebbero) immergersi in un film, viverlo, anche con il proprio sguardo. E’ sempre una questione di sguardo, che sia dell’autore o dello spettatore. L’importante è far propria l’opera filmica o farsi assorbire dall’opera fino a perdersi in essa e/o modellarsi da essa. Perché tutti i film potranno comunque essere utili a qualcuno. L’essenziale è risvegliare questo sentimento, se troppo sopito nell’animo dello spettatore.
In quest’impresa potrà stimolarci la visione soprattutto dei bellissimi capolavori della Storia del Cinema; ma a ricordarci di farlo e a invitarci a farlo continuamente, saranno soltanto film come quest’ultimo di Spielberg – in fin dei conti veri e propri regali preziosi pensati per tutti gli spettatori, cinefili e non.
In conclusione, “The Fabelmans” è pura poesia fattasi film, è uno tra i più commoventi, più interessanti e migliori film dell’anno 2022, assolutamente da non perdere per le tante emozioni e riflessioni che sa suscitare e per le quali non possiamo che ringraziare immensamente Steven…
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