“The French Dispatch”: un vertiginoso affresco di vicende umane.
Ispirandosi ad articoli e firme storiche dell’amato periodico statunitense «The New Yorker» (come si vede dalle copertine nei titoli di coda), ma spostando l’azione in Francia, l’ultima pellicola di Anderson è (anche e non soltanto) un sentito omaggio a qualcosa che sta scomparendo (o è già scomparso), a una cultura passata di moda, a un certo modo di fare giornalismo, all’onesta ricerca della verità, al gioco di squadra, a una tradizione e alla descrizione dei stupefacenti sistemi e meccanismi nascosti dietro il fascino della carta stampata e, per estensione, del cinema analogico (l’opera è girata su pellicola), oggi sempre più soppiantati dal telematico e dal digitale.
Il film mescola il bianco e nero e il colore, il live-action e l’animazione; ha un’estetica avvolgente e una grafica ricca e bizzarra, immaginifica e fantasiosa, che rimandano a miniature e modellismo, disegni e quadri pittorici.
Quattro storie, quattro godibili episodi incastonati tra loro (l’ispirazione del regista è stata la struttura del film “L’oro di Napoli” di De Sica), firmati da altrettanti giornalisti e ciascuna delle quali corrispondente a una sezione dell’immaginario magazine protagonista di questa pellicola, raccontate in immagini e parole col consueto e ammaliante, geometrico e stilizzato, personale e riconoscibile stile visivo e narrativo a cui ci ha abituati Wes Anderson con la sua mirabile filmografia.
In nome del cinema e del suo puro piacere, Wes Anderson inanella qui una serie energica, vertiginosa e minimalista (ma anche un po’ troppo eccessiva e ripetitiva) di citazioni e omaggi, riconoscimenti e prodezze tecniche.
Tantissimi gli attori nel variegato cast, e tantissima carica vitale nel ritmo delle sequenze e del montaggio, ma anche nella composizione delle inquadrature, tanto piene di elementi e dettagli preziosi.
Interessante anche stavolta il sapiente utilizzo delle raffinate scenografie (precisa, curata e minuziosa la costruzione dei décor, dei costumi e accessori), dell’elegante uso della fotografia, dell’efficacia della colonna sonora.
Tutto suona di meraviglioso, nel senso di sbalorditivo, di stupefacente in “The French Dispatch”, ed è una gioia per gli occhi (ma anche dell’intelletto) dello spettatore.
Tutta questa grazia visiva e sonora, antinaturalistica e formale, non scade mai però nel mero esercizio di stile, manierato, fine a stesso o sterile, anzi, diventa altro, diventa arte, astrazione allegorica e commovente dell’esistenza umana, e, soprattutto, motivo di riflessione e tenerezza emotiva, perché, seppur nascosta dalla patina di divertita e divertente autoironia, il film offre temi seri ed importanti (la creatività e l’idealismo dalla cronaca all’arte, ciò che rimane della Storia contemporanea, ciò che può trasfigurare il vuoto dell’esistenza materiale o che merita di sopravvivere alle miserie e alle memorie umane), scorci di poesia, lampi di umanità, comicità e tragedia, disagio o paura del cambiamento, mancanze e morte…
Non quindi una semplice commedia mascherata da riflessione cinefilo-nostalgica, non un riduttivo inno al giornalismo che fu, non una parodica girandola di racconti e vicende ben incastrate tra loro, come potrebbe sembrare in apparenza, “The French Dispatch” è si tutto questo ma anche altro: è soprattutto la rappresentazione, la messinscena di un disperato bisogno tutto umano di riempire con dolcezza e senso ciò che manca (e mancherà) alle nostre menti e ai nostri cuori nello spazio, nel Tempo, nelle pieghe della Storia e delle vite di ognuno di noi…