“The german doctor” è il terzo lungometraggio della regista argentina Lucia Puenzo.
Nella Patagonia del 1960 una famiglia argentina si trasferisce attraversando il ‘deserto’ della comunicazione in una terra piena di destini spenti, di fari mesti, di ripari silenziosi e di uomini che non credi di incontrare (mai). Un percorso in un furgoncino con persone piene di vita ancestrale. Genitori e due figli che vogliono arrivare ad un posto di ristoro, il loro habitat da ricostruire in un albergo in mezzo ad una natura di rara armonia e di bellezza visiva.
E il cerchio familiare si avvicina ad un personaggio semisconosciuto ma che attira strane simpatie e giochi di parole e sguardi della figlia piccola che ha voglia di crescere in mezzo ad adolescenti che si prendono gioco di lei per la sua statura bassa. Viene chiamata ‘nana’: lo strano uomo di bello aspetto interviene senza tanti giochi per convincere la mamma e quindi la ‘bambina’ di strani medicinali per la crescita. Ecco come la medicina di un uomo chiuso nei ricordi macabri entra a far parte di una famiglia e dei loro affetti privati. E il parto prossimo della donna di due gemelli ancor di più allarga le ‘virtù’ di un uomo che sa tutto di guarigioni. Medicinali e strani modi per intervenire sulla vita delle persone, i loro corpi, i loro atteggiamenti e modi di fare, cercare il nascosto di altri mentre chi opera nasconde (furtivamente) una verità oltremodo agghiacciante, putrida e schizzo-frenica. Il suo operare sugli animali è solo vero nascondere di ben altro e di altro da guastare: par senza dire niente vuole cambiare genetica e sviluppo delle persone a lui vicine convincendoli con argomenti ‘sentiti, e ‘voluti’.
Il medico tedesco Josej Mengele gioca fuori casa (Argentina) ma (non par vero) sembra a proprio agio in ogni situazione e compito che gli viene chiesto. E l’interesse per la piccola Lilith trasforma il film in un macabro rituale di meccanismi non visti e di lezioni biologiche teatralmente orribili con marchingegni cervellotici di un periodo nefasto e lugubre. La regia nella storia dei rapporti medico-famiglia non affonda mai i colpi, resta sospesa ma sotto certi aspetti rende tutto inquietante e spurio per ogni rapporto umano. Il destino di un popolo che ha ricevuto eredi di quel che il nazionalsocialismo fece (nel periodo nazista) e ne nasconde opere e destini agli inseguimenti e catture: una vita di povere persone che viene affiancate a personaggi controversi e, ancor più, segugi di destini non appropriati e spodestati dalla vita di dignità verso altri e mai e poi mai verso la loro. Ancora fiero di essere partecipe di una storia (s)finita ma che operano dentro nuclei appoggiati da politiche misere e sicuramente per nulle avvedute.
Manca al film una certa consistenza registica e un piglio di forza sociale, perché quello che il vomito del personaggio parrebbe rigettarci attorno si insinua sottilmente ma senza una segmentazione orrorifica delle vicende e una parvenza di sottigliezza lettura storica che appare, alla fin fine, leggera e tragicamente un po’ dimessa. Il finale di volo sopra il lago (della bella veduta dell’albergo) è come lo sguardo del medico tedesco, inerme e rituale mentre una bambina corre con lo sguardo in alto: in fondo si può scappare dal nemico sempre perché i piccoli non possono macchiarsi delle colpe dei grandi anche se il ‘trucco’ cine della corsa e dell’areo svolazzante paiono mescolare sensazioni di un eroismo al rovescio che non trova (nelle ultime inquadrature) uno sferzante colpo d’ala per scardinare il colpo di altri e la storia nei modi vergognosamente indegni.
Il criminale con lo sguardo languido e avveduto si gioca di tutti e s’accomoda nella storia (quasi per caso) con una fisicità sentita e amena, laccata e pericolosa nel volto dell’attore spagnolo Alex Brendemhul mentre la ‘ragazzina’ Lilith è interpretata da Florencia Bado (semplice e naturale). La famiglia argentina che ospitò il ‘dottore-criminale’ è nelle prove di NataliA Oreiro (Eva) e Diego Peretti (Enzo) con l’altro figlio Tomàs (Alan Daicz): bravi sicuramente ma poco partecipanti agli avvenimenti. Il distacco da quello che si vuole dire appare forse oltremodo cercato e la recitazione ne risente. Buona l’ambientazione come la fotografia di Nicolas Puenzo (tutto è rimasto in famiglia) mentre la regia di Lucia Puenzo non comprime bene il piatto che ci offre restando (bene) su modi professionali di ripresa (niente di altro).
Voto: 7-.