“The Greatest Showman” è la storia di P.T. Barnum, l’uomo che ha inventato il circo moderno e rivoluzionato il mondo dello spettacolo, portata su schermo cinematografico sotto forma di un musical che sembra aspirare all’impatto visivo grandioso del “Moulin Rouge” di Baz Luhrmann.
L’impresa riesce e non riesce. Il risultato finale è quello di un buon film che però, come ci suggerisce il titolo, avrebbe voluto essere di più.
Protagonista è Hugh Jackman, a oggi forse uno degli artisti più completi (e boni, permettetemi questa licenza poetica, non ce la faccio a essere sempre seria) del panorama hollywoodiano; un vero uomo da palcoscenico che sa come armonizzare corpo, canto e recitazione. Jackman è, appunto, P.T. Barnum, un uomo venuto dal nulla, sognatore ma anche grande egoista: “Ridono comunque, tanto vale che paghino”.
Accanto a lui Michelle Williams, che in questa pellicola non insegue l’Oscar ma si mette ancora una volta alla prova come artista cimentandosi nel canto; e Zac Efron, che nel mondo del musical ci è cresciuto.
Il biondino di “High School Musical” è assai maturato dai tempi della Disney ed è un peccato che il suo talento, che è innegabile e in continuo crescendo, a prescindere che resti simpatico o meno, non venga sfruttato al massimo.
Impianto narrativo buono ma sbrigativo, sicuramente di stampo hollywoodiano, ma in fondo è anche questo che chiediamo al cinema, di farci uscire dai confini della realtà. Apprezzabile il tema di fondo, quello di non nascondere ma anzi portare in luce e accettare la diversità. P.T. Barnum allestisce una compagnia di outcast (nani, giganti, donne barbute…), di persone che la società addita, con tanto di aria turbata e un po’ offesa, come mostri. Un tema importante, soprattutto in un periodo storico come il nostro, in cui la parola “uguaglianza” ci riempie le bocche ma non viene adeguatamente processata dal cervello e dal buon senso e dove, invece che ad accettarci, rispettarci ed esaltare ognuno il proprio valore, tendiamo affannosamente ad omologarci.
“Nessuno ha mai fatto la differenza restando come gli altri.” Questa è stata la grande illuminazione di Barnum, il suo più grande merito e insegnamento. Quello in cui il film fallisce, è di non farci conoscere a fondo questi “diversi”, di non indagarne la personalità, lasciandoli a svolgere un ruolo corale e da seconda fila.
Mettendo però da parte le chiacchere e le pignolerie da cinefila con cui mi potrei trascinare per ore, dell’opera di Michael Gracey posso dire che fallisce, si, nell’obiettivo di essere il capolavoro che si era prefissato, in quanto, nella visione al dettaglio va a peccare malamente di superficialità. Nell’insieme è però un film piacevole, di buoni contenuti, ritmato, visivamente appagante, ben recitato e cantato e perfetto per il suo periodo di rilascio, quello delle feste. Un meritatissimo 7 e ½. Finale.
Che poi, dove sta scritto che ogni film debba essere un capolavoro?