“The Happy Prince” (id., 2018) è il primo lungometraggio dell’attore-regista inglese Rupert Everett.
“Sto morendo al di sopra delle mie possibilità”.
Le parole di Oscar Wilde escono come un pugno a se stesso e al mondo suo vicino.
Siamo nel 1987 quando il ‘poeta-drammaturgo’ esce di prigione. Si ritira in un piccolo paese francese con pochi amici; non vede più la sua famiglia e passa anni di rifiuto e abbandono. Pochi anzi pochissimi si ricordano di lui fino alla sua morte (1900). Le forze minime, la mente lacerata e l’ipocrisia amicale fanno il resto come quella di essere ‘visitato’ da un prete per l’estrema unzione.
Film di passione e di forza pregnante con immagini e ambienti mai casuali.
Colori svariati dal buio pesto, al grigio aggrumato, al bluastro, all’azzurro appassito al biancore teso e malinconico: un andirivieni di luoghi chiusi e tristi, di tavoli apparecchiati, di mangiate, di bevande e bottiglie svuotate, di panorami, di lidi e scogliere, spiagge e acque con onde arricciate.
La vita e il suo termine amaro di Oscar Wilde, il poeta che navigava tra gusti effimeri, famiglia abbandonata, una moglie che vorrebbe perdonarlo, due figlie e la sua voglia di vivere senza gusti confinanti. Omosessualità indignante, moralismo con un individuo da schifare, sputargli e vergognarsene. Una fine che solo qualche amico segue da vicino e con atteggiamenti non sempre lineari.
Oscar, mai nome più opinabile, contraddittorio e, quasi, contrastato: un signore arrugginito, ingrassato, viziato, penosamente instabile con poche cose da fare e molte ne vorrebbe dire. Un’ultima opera, ancora da cominciare, forse mai da scrivere, già venduta a tre editori con nessuna riga da declamare, come un puledro senza un prato da brucare. Una riga vuota, un quaderno bianco e un titolo da annullare.
Un film che imprime coraggio vivo e forza devastante per chi vuole n trarre in un mondo artefatto, scorbutico, alcolico, pestato e privo di pudore leggero. Oscar si dà alla bella vita tra Londra, Genova, Napoli e i ragazzi che conosce sporadicamente.
Nudi di occasione, denaro senza bugie, debiti e sesso da guardare. Mangiare e bere, morte e vita che litigano continuamente in una pellicola piena di passione recitativa, cattiva nel suo excursus, barocca e libera, dove ogni volto è ben delineato facilmente si ricorda e rimane impresso. Un linguaggio non privo di eccessi inutili, di escandescenze ma nello stesso tempo un parlare ‘sacrale’, ‘variopinto’ e, soprattutto, ‘ leziosamente poetico’. Ecco un film che ha immagini appesantite dove ogni inquadratura è pregnante di tante vite attorno e di una moritura di stagioni. Che belle queste didascalie asciutte e ferme di gioia compressa con un pietà che guarda sciogliersi il suo corpo nella gioia di altri. Storie depresse e vite ammalianti.
Alcune sequenze sono da menzionare, ma quasi tutte fanno gioco a se: la spiaggia, bassa marea, un manipolo di ragazzi che gioca, tutti ben vestiti, una sabbia imbevuta, un cappello riposante e una sedia da dove Oscar ammira i corpi veloci di giovani virgulti . Tutto inquadrato con particolarismo minimo e povero. Spolverare una mazza per una pallina (croquet). James Ivory applaudirebbe convinto: ‘another country’ (ricordando il film dell’attore del 1984 di Marek Kanievska).
Napoli su una terrazza. Lui e il suo ‘amico’ Bosie. Si mangia con un tavolo imbandito a meraviglia, un vestiario sobrio di super-accessoriato, si canta e si conosce il viso di chi serve, un ragazzo, uno sguardo, una vita, un paesaggio di bellezza viva e archeologica, il Vesuvio che si scalda e una lava che s’abbatte sulle vite molteplici di una poesia che solo qualcuno vuole ascoltare.
Rupert Everett dopo tanto gira il film che voleva da molto, forse da sempre.
Sua opera prima ma ci mette tutto se stesso per ricordarselo. Certamente una considerazione maggiore di quello che è assente. La vera leggerezza è da altre parti. L’attore inglese inquadra il personaggio Oscar Wilde con foga e partecipazione: tiene per se l’istinto di una prova convincente e pastosa per non diventare nessuno degli altri. Il cast è ben diretto e di ognuno rimane il gioco ad un set pieno di giudizi e vezzi goliardicamente mortuari. Un film non privo di pecche di ‘saturazione’ da schermo ma accarezza con triste avidità una storia non facile e lascia il segno negli ambienti, nelle sfumature e in una ricostruzione che appare longeva e accattivante.
Rupert Everett (Oscar Wilde) ha il grande merito di ritagliare il cast con maestria e con senso di partecipazione corale evitando sovrapposizioni e oltre più cadaveri in stato di (dis)grazia. Colin Firh (Reggie), Colin Morgan (Bosie), Emily Watson (Constance), Edwin Thomas (Robbie) e tutti d’altronde acclamano il set con giusta maestria. I titoli di coda e le sovrascritte ricordano le morti di Bosie e Robbie la riabilitazione del poeta nel 2017. Oltre un secolo dopo la sua morte.
Fotografia di livello eccelso e di grande efficacia, vale il biglietto. Come vale la ‘postura’ degli ambienti altamente pensati per cercare di non sbagliare.
Regia avvolgente e minima nei particolari. Anche la pioggia fa da sentinella alla cinepresa. Un attore che ha imparato (da molti altri) a dirigere bene (anche di più).
Voto: 8–/10.