Qualche anno dopo la fine della Guerra di Secessione Americana, una diligenza corre tra le montagne del Wyoming. A bordo John Ruth “Il boia” (Russell) accompagna la bandita Daisy Domergue (Jason Leigh) alla forca, ma si imbatte nel cacciatore di taglie Marquis Warren (Jackson), rimasto senza cavallo, e lo prende con sé a bordo. Incontreranno sulla strada anche il futuro sceriffo (Goggins) di Red Rock, dove sono diretti, e caricheranno a bordo anche lui, per poi fermarsi in un emporio per rifocillarsi e attendere la fine della bufera di neve che impazza sulle montagne. Nell’emporio troveranno una serie di curiosi personaggi e scopriranno che nulla è come sembra e i vari incontri sono ben poco casuali. Tarantino, come sempre anche sceneggiatore, con The Hateful Eight ha portato il suo cinema ben oltre i limiti conosciuti ed esplorati. Questo suo nuovo film infatti nasce come una sfida assoluta, tecnica e narrativa. Tecnica perché il regista e il suo direttore della fotografia Robert Richardson (che qui ha fatto un lavoro davvero straordinario) hanno deciso di girare il film su pellicola 70mm in formato panoramico ultra-panavision: insomma il top del top, la pellicola più grande in assoluto, che garantisce un’immagine enormemente più vasta della norma (e si vede, specie nelle sequenze paesaggistiche), gloriosa e spettacolare come nessun altra nel nostro tempo, in cui il digitale ci ha fatto adagiare su una definizione e una grandezza dell’immagine molto più modeste. Ma torniamo alla sfida narrativa: Tarantino ha portato alle estreme conseguenze il suo cinema teatrale, con una pièce che sfiora le tre ore e non disdegna né la suddivisione in atti-capitoli, né una costruzione temporale non convenzionale (il film è privo di senso fino al lungo flashback che prelude al finale, che assume tra l’altro il ruolo di prova generale per il film: sono gli attori che si preparano ad entrare in scena), né la claustrofobia dell’ambientazione (la diligenza prima, l’emporio poi), né un’azione più rarefatta che mai: le scene d’azione sono poche, tutte nella seconda parte, e comunque di estrema staticità. Il resto è dialogo: un dialogato fluviale, interminabile, ironico, divertentissimo, ma anche commovente e malinconico (la sublime scena in cui Warren e il generale Smithers [Dern] dialogano in poltrona con il pianoforte in sottofondo, il racconto amaro di una guerra che non ha lasciato vincitori, ma solo sconfitti). Tarantino spinge al massimo livello il binomio divertimento-riflessione, di cui si è fatto portatore negli ultimi anni in particolare. È un’opera estatica, che trasmette un’eccitazione e una godibilità invidiabili, in un contesto di amara serietà: sembra semplice cinema di genere ma non lo è. È una riflessione abissale sull’America e sulla violenza che l’affligge: non c’è pietà, né perdono, per nessuno. Il personaggio positivo è annullato: non c’è nessun Django, nessun eroe, in una crisi di ideali che è più attuale che mai. Dunque il film più complesso, difficile (si arriva alla fine comunque affaticati: mantenere alta l’attenzione su 3 ore di dialogato è impegnativo) e politico, l’unico moralmente compiuto. Stilisticamente è l’ennesimo capolavoro: la regia abbandona gli eccessi di Django, per farsi più solenne e lenta (memorabile il lentissimo movimento di macchina iniziale che inquadra il crocifisso di legno), ma non rinuncia a vertiginosi rallenty e a un gusto meraviglioso per lo splatter più esagerato. Gli interpreti si mettono del tutto al servizio della sceneggiatura e ci lasciano otto interpretazioni mastodontiche: difficile trovare il più bravo, ma meritano la citazione per lo meno Jackson, la Jason Leigh, Roth e Russell. Eccezionale colonna sonora di Ennio Morricone. All’uscita dalla sala si rimane estasiati, commossi (grazie anche ad un finale sconvolgente e bellissimo), adoranti, di fronte ad un’opera troppo grande per essere commentata a parole. È cinema, puro cinema. Anzi, grandissimo cinema. E mi piace l’idea di concludere concordando con Giorgio Viaro che ha ben detto: “Ogni volta che esce un nuovo film di Tarantino si ha l’impressione di aver passato gli ultimi due anni a mangiare alla mensa aziendale e di tornare finalmente in un grande ristorante”. The Hateful Eight è un banchetto solenne, allestito per noi, da uno dei più grandi cineasti viventi. Ma come dice Warren-Lincoln nel finale “c’è ancora molta strada da fare”. VOTO 9/10
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