“The Hateful Eight” (id., 2015) è l’ottavo film del regista Quentin Tarantino.
Quasi odiosamente odioso e schizzofrenicamente (mesto) di rosso incorporato in tutte le salse l’eight-group si dimena in una parola continua per spiegare(ci) per filo e per segno anche il campo e il controcampo, il gioco e l’arte di non nasconderlo fino ad una voce ‘dixit’ che fastidiosamente s’allunga come ombra su un lungo finale che pare non finire mai. E il glamour ‘referenziale’ di un rosso (poco profondo) che sbadiglia su ogni corpo fa ‘cadaverizzare’ un film che ostenta passione, ricolma di cinepresa succulenta, spaventa per un dialogo interminabile e propina goduria filmica per i ‘puri’ avveduti verso un regista che acchiappa il set e ne tortura a suo piacimento ogni angolo (con i suoi attori feticcio che, certo, non si risparmiano e non lesinano occhiate compiaciute allo schermo grande verso uno spettatore un po’ annoiato e ‘uscito’ da un presuntuo-so- lavoro di siffatta fattura…).
Estenuante-mente ridondante, eight come ottavo, otto come il riminese meno un mezzo: giriamola come vogliamo ma il titolo sa già di odore compiaciuto ammiccando a ciò che si vuole salire sul trono meglio di tanti altri. L’auto(ottovolante)celebrativo richiede pazienza per la cinepresa in chiuso di ‘diligenza’ o di ‘rifugio’. Tutto appare dispari e il pari accoppia lo sconquassamento dei corpi per finire in sosta.
Intrepida neve, bianca e pura, sbrindellato Wyoming, diligenza stanco, uomini in preda e stanchezza per un rifugio che nasconde giochi e ritrovi sopra e sotto il pavimento, mentre il vento freddo, teso e impaziente, vorrebbe entrare per sconquassare ciò che rimane (di ognuno quasi nulla).
Gigioneggiare nel palmares delle arti, gingillare su riprese e volti in primo piano, avvolgere i musi dei cavalli con uno stro(i)mba(ra)zzante primo piano di corsa, con la neve che avvinghia lo schermo e blocca ogni ardita salita cinematografica. Il Morricone pensiero si ferma dove può per una ‘sonorità’ sicuramente bella ma bloccata dagli schemi del Quentin-factotum.
Ho intrapreso un viaggio lungo. E mi fermo per un buon riposo. Ci siu vuole estraniare ma il regista si adopera per non farci mai distrarre, anzi il sonnecchiare è lì, vicino e languido il tepore…per non seguire ogni minima parola dalle voci ‘furenti’ di ciascuno fino al volto pieno e putrido, esanime e sanguinolento di Daisy, con una forca che attende la sortita quasi finale.
Tarantino scuce e ricama ogni facciata, ogni volto, sputa il sangue (letterale), aggiunge, toglie, nomina ogni tratto per una lettera di Lincoln (chi sa quante volte nominato….troppe…) che si legge senza un commento con la coppia (Warren-Mannix) moribonda oltre ogni respiro. Sinceramente poco –troppo poco- per una commozione esautorata di un significato troppo lungo nel tempo (e nel film…).
L’ultimo Tarantino delude e anche molto sotto certo aspetti si attende il respiro finale dopo interminabili tre ore di proiezione come maestosità appesa al manifesto di schiena con l’uomo che ha le sembianze del cavaliere oscuro o del mostro Belfagor… in posa autoriale per nasconderci ogni minimo dettaglio tra il biancore (acceso) e il freddo per un caffè da sorbirsi buono e caldo ….
Gruppo e cast (Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Tim Roth e Jennifer J. Leigh sembrano divertirsi molto…) in sintonia con il regista, non certo esaltante il gioco che si nasconde con un colloquio interminabile e bugie costanti. Paradigma di un cinema celebrante, come ossimoro di un grande schermo che non si vede affatto. Preferisco rivedere altro.
Voto: 5½/10.