The Hateful Eight: la recensione di Mauro Lanari
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The Hateful Eight: la recensione di Mauro Lanari

The Hateful Eight: la recensione di Mauro Lanari

“Quentin si ama o si odia”. È dal suo debutto ch’invece la critica più avveduta cerca di sgattaiolar via dagli speculari fanatismi monovalenti provand’a evidenziare i pro e i contro, i pregi e i difetti del cinema tarantiniano. Innovativo come soggettista e sceneggiatore, ha introdotto nella 7a arte quella “quotidianizzazione della violenza” (sadica) ch’aveva già segnato il XX secolo partend’addirittura dalla spiritualità di Teresa di Lisieux, morta nel 1897 e considerata la santa di maggior importanza del ‘900 per la sua “petite voie”, la “piccola via” ch’indica l’esercizio (sacrificalmente) eroico delle virtù cristiane praticato nella ruotine giornaliera e non più dai grandi sant’in form’epicamente appariscenti: “In Cielo vi son più casalinghe che teologi o fondatori e riformatori d’ordini religiosi”. Il s/m harendtianamente banale delle nostre vite è il cardine di Tarantino che n’afferma l’ineluttabilità. Per quasi tutta la durata de “Le iene” (1992) il personaggio di Tim Roth giace a terra, spess’abbandonat’in secondo piano e ferito sin’a svenarsi: è l’Hegel della “Geschichte als Schlachtbank”, la storia come banco da mattatoi’o macellaio delle “Lezioni sulla filosofia della storia” III, 2, 24 (cf. http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaH/Hegel_01.htm). Poi però ci son’anche la tortura ostentata, l’exploitation, lo splatter, il gore, l’horror, appunt’il pulp, una crudeltà compiaciuta, gratuita ed eccessiva, un cruento rilanciare “The Atrocity Exhibition” di Ballard (1970) e poi dei Joy Divison (brano d’apertura del 2° e ultim’album “Closer”, 1980). I protagonisti usano per nomignolo un colore: Mr. White, Mr. Orange, Mr. Pink, Mr. Blonde, Mr. Brown, Mr. Blue, ma d’allora il pantone del regista s’è fissato sul “Mr. Blood Red”. Ironia, cinefilia, fumettismo, citazionismo non attenuano l’effetto d’oscenità e il dibattito sulla c.d. “estetizzazione della violenza” prosegue accesissimo ancora oggi. Pur’il suo penultimo film, “Django Unchained” (2012), è stat’oggetto d’analoghe accuse (cf. Geoffrey Mcnab, “Django Unchained and the ‘new sadism’ in cinema”, “The Independent”, 11 febbraio 2013: “There is something disconcerting about sitting in a crowded cinema as an audience guffaws at the latest garroting or falls about in hysterics as someone is beheaded or has a limb lopped off”, http://www.independent.co.uk/arts-entertainment/films/features/django-unchained-and-the-new-sadism-in-cinema-8446213.html). Chi giustifica lui, e Scorsese, Woo, Miike, Haneke, (Chan-wook) Park, il Kubrick d'”Arancia meccanica”, tir’in ballo la catarsi coscienziale della tragedia greca, mentre chi non lo difende lo paragona semmai alla barbara e macabra catarsi del pollice verso nei giochi gladiatorii, quel “thumb down” a cui fin qui s’è opposto lo stesso Zuckerberg per non fomentare ulteriori atti di cyberbullismo. “Vexata quaestio”, insomma, dov’a mio parere la lettura misantropica del giovenalesco “panem et circenses” sa proporre valide ragion’in sovrannumero. Sta di fatto che Tarantino non ha mai mostrat’interesse, o capacità, per esportare il suo stile applicandolo a poetiche diverse dalla propria. Egli è a buon diritto celebre anche per la costruzione del racconto, con un “back and forth” che costella la struttura delle sue storie ed è una notevol’alternativa sia ai tipi di montaggio classico sia alle strutture diegetiche lineari e non. Altro punt’a suo favore: l’utilizzo dei proverbiali dialoghi fiume sempr’allo scopo di livellar’eventi del tran tran esistenziale e fenomeni di trucida ferocia. Questi dialoghi, sospesi fra iperrealismo e surrealismo, allungano efficacemente la suspense, sebbene già in “Pulp Fiction” (1994) c’era chi ne stigmatizzava l’abuso come nel monologo del capitano Koons (Christopher Walken) al bambino e, in “The Hateful Eight”, alcuni sproloqui son’interminabili, logorroici, inutili. “Il film s’apre con un lentissimo dolly all’indietro che parte dal volto d’un Crocifisso ligneo, coperto di neve e ghiaccio, forse la singola sequenza più bella degl’ultimi anni.” Sarebbe potuto iniziar’e terminare lì, m’a Tarantino non s’addic’il dono della sintesi e dunque rilancia per tre ore nella “nichilistica, spietata, paranoica storia degli Stati Uniti d’America”, “di stati uniti per forza, con la guerra, con la morte, nel nome d’una giustizia ch’è tale solo quando condivisa, anche da chi magari si detesta e s’è guardato con odio fin’al momento della verità”, una storia di 8 “bastardi senza gloria”, coi colori de “Le iene” che “stavolta non sono dei modi creativi per celare l’identità, ma un modo razzista per svilirla e discriminarla”, 8 pistoleri “senz’eroismo in cui si percepisce chiaramente la natura degl’archetipi e la violenza del dna” della nazion’a stelle & strisce. La pellicola pìù politica del cineasta per sua esplicit’ammissione, sottolineando comunque l’incongruenza d’una protesta contro lo yankeecentrismo affetta dalla medesima tara: un localismo superato dall’attuale globalizzazione. Citando un paio d’autori di cui Quentin ha dichiarato l’influenza, il Carpenter de “La cosa” (1982) con l’dentic’attore Kurt Russell aveva saput’evitare l’aporìa, P.T. Anderson no. “Last but non least”: “possibile ch’uno sceneggiatore come Tarantino, così preciso, perfett’e ossessivo nella stesura dello script, si sia lasciato sfuggire un dettaglio mica da poco?” Sì, l’ha fatto: la trama è incentrata/concentrata s’un agguat’in un emporio, ma che la diligenza dovesse sostare lì è solo per caso fortuito, imprevedibile da tutt’i personaggi mess’in scena. Ps: su IMDb la media voti crolla con l’età e il sesso femminile (cf. http://www.imdb.com/title/tt3460252/ratings).

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