All’inizio del film una didascalia ci avvisa che quella che stiamo per vedere è una storia vera. Se si trattasse di finzione, saremmo tentati a definire l’opera come retorica, strappalacrime o buonista, ma l’avviso iniziale ci dispone nella giusta attitudine. Quel che ci viene mostrato non è esasperato o ricattatorio e Juan Antonio Bayona, il cui il brillante esordio The Orphanage gli ha procurato un posto al sole nello scenario internazionale è attento – specie nella prime parte – a plasmare un’opera asciutta, rigorosa e veritiera. Non sceglie la via documentaristica, neppure nella sua accezione mock(umentary), e costruisce un vero e proprio disaster movie che non ha nulla a che vedere con Emmerich perché ha i toni del thriller, soluzioni visive da survival horror ed esplosioni melò. Bayona non vuole semplicemente descrivere quel che è successo nella Costa occidentale della Thailandia in quel Natale del 2004 (precisamente il 26 dicembre), non vuole fare la conta dei morti (un numero pazzesco: più di 300mila) o descriverci la cronistoria dell’accaduto tout court, ma mira a immergerci con tutto il corpo in quell’acqua nera e travolgente. E ci riesce alla perfezione.
Il film parte a mille, giusto il tempo di introdurre i personaggi, le psicologie, l’atmosfera che suscita tensione e che è già la “promessa”di qualcosa di drammatico e imminente. Ed eccolo lì, un muro d’acqua che spazza via tutto e trasforma un vero paradiso in terra in un inferno, da cui veniamo travolti anche noi insieme a rottami, animali, cadaveri, detriti di ogni tipo e che spezza in due una famiglia: Maria e il preadolescente Lucas da una parte, Henry e i piccoli Tomas e Simon dall’altra. Il mare e il cielo diventano protagonisti insieme agli attori ed è soprattutto la Watts (ingiustamente ignorata da Globes e Sag) a farsi carico delle punte estreme da survival horror del film: “corpo” che si fa sbatacchiare, affondare, lacerare, trascinare, invadere. Con quella ferocia propria dei fenomeni naturali, che fa vacillare la spontanea sicurezza del giovanissimo Lucas (l’esordiente al cinema Tom Holland, ma già star dei palcoscenici del West End) e gli impone una maturazione accelerata. Memorabili entrambi nella recitazione, Watts e Holland sono i due motori da cui parte l’azione e il ragazzo è una promessa da tenere d’occhio e che farà strada. Ma anche McGregor nella parte centrale offre una prova mirabile.
Il film punta all’emozione senza fraintendimenti: prima ci denuda di tutto e lascia sospesa nell’aria la speranza e poi fa deflagrare l’emozione con scene melò toccanti, ma non senza intanto averci fatto morire di paura, gettato nello sconforto, raso a zero le ultime speranze sulle possibilità di riunione.
The Impossible è un film che scuote intensamente l’emotività (l’impossibile è trattenere le lacrime o la commozione) e il tutto non in un contesto intimista, ma senza confini veri e propri, completamente en plen air, con riprese dall’alto catastrofiche che mostrano un Paese devastato, miglia di comparse (diversi i veri superstiti che hanno partecipato al film tornando nel resort ricostruito) all’opera, ospedali invasi da folle di vittime e dispersi che cercano altri dispersi.
E’ una grande produzione che non ha ceduto alla seduzione del digitale, pur non lesinando sugli effetti speciali, ma ha premuto l’acceleratore sul “fattore verità”, con set-vasca enormi riempiti da tonnellate di acqua e una regia efficace fatta di riprese a spalla e in steadycam.
Le riflessioni che la tragedia naturale porta a galla sono molteplici: la forza dei legami di sangue, la solidarietà che c’è o può mancare anche senza cattiveria (non prestare il proprio cellulare che si sta scaricando è sano egoismo), le ripercussioni di un comportamento altruista che si riverberano nell’immediato futuro.
Il regista spagnolo preferisce illuminare gli atti di grande solidarietà che una tragedia può innescare e ha dalla sua le testimonianze dirette delle vittime in carne e ossa che gli evitano di chiamare in causa la solita sospensione dell’incredulità. A qualcuno potrà dispiacere la minor asciuttezza della seconda parte, ma quello di Bayona è un indugiare sulle emozioni che si perdona facilmente.
Buona parte del merito di questo film nasce dalla sua radice iberica (dai partner americani eredita il gusto per un cinema Larger than Life e il cast anglofono), ma resta profondamente europeo nella sensibilità. Una punta d’invidia per i nostri vicini di casa è difficile non provarla.
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Mi piace: la commistione di generi: thriller, disaster movie e melò. Il cast misurato.Le dimensioni kolossal di una produzione europea che ne fanno un esempio da imitare.
Non mi piace: una certa enfasi nella parte finale, che però è proporzionale alle dimensioni della tragedia e delle situazioni descritte.
Consigliato a chi: è a caccia di emozioni forti.
VOTO: 4/5
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