The Informer, la recensione
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The Informer, la recensione

Un thriller indipendente condotto con mano sicura e una bella attenzione per i personaggi secondari, con una seconda parte in carcere particolarmente efficace

The Informer, la recensione

Un thriller indipendente condotto con mano sicura e una bella attenzione per i personaggi secondari, con una seconda parte in carcere particolarmente efficace

The Informer
PANORAMICA
Regia (3.5)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (2.5)
Montaggio (3)
Fotografia (3)
Colonna sonora (3)

Sorpresa: Stefano Sollima non è l’unico a saper gestire una produzione americana di genere e a confezionare thriller all’altezza del mercato globale. Andrea di Stefano, attore di media fama e adesso regista (il suo debutto, già internazionale, è stato Escobar – Paradiso perduto con Benicio del Toro), ha infatti preso in mano uno script tratto da un best-seller svedese – Tre secondi – e a suon di riscritture e aggiustamenti del cast l’ha completato e portato in sala con il titolo The Informer. Il risultato è buono, nonostante un plot che accumula tradimenti e doppi giochi secondo una traiettoria non particolarmente originale, spingendo il film dal territorio del gangster movie a quello del prison movie.

Il racconto gira attorno a Pete Koslow (Joel Kinnaman), americano di origini polacche, ex militare con la sua quota di traumi, infiltrato nella mafia est europea per conto dell’FBI. Ricattato e poi abbandonato da entrambe le parti, bureau e criminali, si ritrova in un carcere di massima sicurezza con le spalle scoperte e una probabilità di sopravvivere ridotta quasi a zero. L’ambizione, per ammissione dello stesso Di Stefano, era quella di fare un thriller urbano alla maniera di Friedkin, valorizzando lo scenario newyorkese e le rincorse stradali. In realtà del film resta impressa soprattutto la parte carceraria, che ha un paio di sequenze molto efficaci e mostra in modo originale (e documentato) il modo in cui spesso viene risolto il problema del sovraffollamento, ovvero trasformando le palestre in dormitori ingombri di letti a castello, in cui convivono centinaia di detenuti.

C’è anche un’attenzione non banale per i personaggi secondari, in particolare la moglie del protagonista (interpretata da Ana De Armas, che buca lo schermo ogni volta), un po’ alla maniera di Micheal Mann: con le dovute proporzioni torna in mente il rapporto tra Chris e Charlene in Heat. Ma in generale c’è questa impressione che dentro un contesto indipendente e con un budget molto limitato Di Stefano abbia fatto il possibile per rendere tridimensionali buoni e cattivi, e credibile l’azione, dando a tutti lo spazio necessario e un taglio preciso. Così dentro un film che ha pochissimi stunt, e uno sviluppo deciso quanto risaputo, che fa cioè della dedizione al puro genere la sua forza, brilla un gran cast (Rosamund Pike, Clive Owen) e una consapevolezza quasi d’autore: mi pare che si intraveda un futuro.

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