“La leggenda di Tarzan” (The Legend of Tarzan, 2016) è il sesto lungometraggio del regista britannico David Yates.
Per l’ennesimo film sull’uomo-scimmia (alla ricerca dovrebbe essere il quarantatreesimo) dalla penna di Edgar Rice Burroughs, meglio sedersi e vedere bene, lasciarsi andare, cullare il sogno del grande schermo, estraniarsi e passare un paio d’ore di spettacolo cinematografico. Il resto per una pellicola già ‘disegnata’ in partenza è difficile non dire nulla per qualcosa di molto più accattivante
Poi ‘leggendo’ bene l’excursus dello scrittore statunitense ci si accorge che le opere su ‘Tarzan’ sono più di venti e alcune mai tradotte nella lingua italiana. Il primo libro ‘Tarzan delle scimmie’ è del 1912: quindi dopo un secolo dall’inizio il mito continuo e l’uomo selvaggio seduce sempre (più o memo riuscito) sul grande schermo.
Si parte da Londra nel 1889, una riunione, la politica, la schiavitù e il Belgio per voler convincere Clayton III a tornare in Africa. E la risposta è ‘no’. Tra flash-back tra il presente e il passato l’uomo selvaggio si trova nella sua bellissima dimora londinese con l’amata Jane. Tutti ben vestiti e con classe e la voglia di tornare nei luoghi non c’è proprio. E’ il suo amico George Washington Williams che di guerra civile e del re Leopoldo II ne sa più di qualcosa, a convincerlo dopo la giusta insistenza. E lo scontro con il capitano Leon Rom (inviato del re) e i suoi schieramenti diventa il ‘fatto’ del film , quindi civiltà-potere, natura-interessi, colonialismo-libertà, avidità-terra di non conquista.
Una pellicola che cerca di incentrare l’antefatto della vita selvaggia di Tarzan (la sua crescita in mezzo alla giungla e ai fratelli animali) nella vita di ritorno al mondo ‘normale’ (nel Congo) per un ‘no’ iniziale che diventa il simbolo di un ‘verginità’ che non ha bisogno di approfittatori e bramosi signori dell’alta società.
Dalla (in)civiltà della politica economica alla civiltà di una natura libera da ogni ingranaggio danaroso.
Certo è che lo spettacolo assiste lo sguardo e ogni inquadratura è sempre piana di qualcosa pur ponendo la ricostruzione dei luoghi non pienamente veritiera rispetto ai luoghi di cui si parla (Congo in primis naturalmente). E il gioco digitale su animali, effetti e battaglie non depongono bene verso un film, che è certamente godibile, ma limita il suo orizzonte per un ‘levigato’ che tende all’ordinario come un blockbuster di (solo) genere.
La partecipazione ‘emotiva’ dovrebbe essere centrale per un coinvolgimento che vada oltre la sala di proiezione per rimanere un po’ dentro e quindi parlare di cinema che rimane. Da questo punto di vista non c’è un buon ‘feeling’ con lo spettatore: altalenante e incerto con un paradigma finale che diventa paragone per poteri ossessionati (ad ogni costo) dalla conquista (volendo soverchiare la vita anche animale). Un’idea che è sottofondo della pellicola ma sfugge di mano volendo giostrare (forse troppo) solo sula spettacolarizzazione plastificata.
Alexander Skarsgàrd (Tarzan-Clayton III) ha il carisma giusto per un ruolo difficilmente scalfibile dall’immaginario collettivo di certi attori del passato (naturalmente Johnny Weismuller rimane perfetto e integro fino ad oggi) e recente senza considerare il cartoon della Disney (‘Tarzan’ del 1999), primo in assoluto, che ha lasciato un segno importante. Il suo linguaggio appare scarno e essenziale, viso algido e rincuorante, malinconico benevolo. Sfondare lo schermo in simili ruoli è fondamentale e va al di là di regia e sceneggiatura.
Margot Robbie (Jane) ha il volto radioso e intrigante che lascia presagire un futuro ottimista (e certo che Scorsese aveva visto giusto nel suo “The Wolf of Wall Street”, 2013); Samuel L. Jackson (George W.Williams) legge bene il personaggio con una giusta ironia e con la sua trafila lunghissima di pellicole si permette di sorriderci per stare al passo (o volo) dell’uomo selvaggio; Christoph Waltz (Léon Rom) ha avuto sempre le ciglia giuste per ruoli non facilmente dimenticabili (come in ‘Spectre’, o Tarantino o Polanski) l’importante non chiudersi dentro una maschera inopinatamente trucida.
Ecco quando il cinema ha molti mezzi per una storia già (quasi) programmata, meglio non eccedere con i trucchi di finzione irreale e dare l’umanità di un’epoca suggestiva (il libro come apertura verso il grande schermo).: le contraffazioni meglio evitarle. ‘Togliete l’ancora, allontaniamoci da questo ginepraio’ : ecco una battuta che potrebbe sintetizzare l’attenzione registica in certe occasioni.
Una menzione va alla fotografia di Henry Braham sulle bellissime viste panoramiche (girarlo tutto in Africa impossibile?). I titoli di coda arrivano con
E i titoli di coda arrivano con in sottofondo ‘Better love’ del cantante irlandese Hozier.
(‘…Siamo sconosciuti;
Al mondo selvaggio e a noi due
Ho confessato, a lungo stavo sognando di …;
Un amore migliore, ma non c’è un amore migliore…).
Regia di David Yates in linea col prodotto.
Voto: 6½ /10.