Niente più grigio, niente più blu, rosso scarlatto per me, rosso scarlatto per te. The Lobster è sì una storia d’amore non convenzionale ma anche di amore non convenzionale, per fortuna perché di una altra normale non ce ne era bisogno. E non stupisce, non stupisce affatto che anche a Cannes, in particolare i fratelli Coen in giuria, se ne siano accorta. Premio della Giuria. Fotografia umida e porosa, preferenza per campi laterali, un’idea geniale, freddezza scientifica nel ritratto socio-psicologico di rara versatilità, narrazione per dicotomia che condensa e allo stesso tempo compartisce nettamente, lenti meccanicismi e ambiguo finalismo, straripante violenza psicologica, risate, black comedy, sorprendentemente intimo e d’empatia. Insomma no, non convenzionale, nemmeno nell’incipit. In un futuro prossimo, si direbbe dispotico ma vicino, i Single, secondo quanto stabiliscono le regole della Città, vengono arrestati e trasferiti nell’Hotel, dove sono obbligati a trovarsi un partner entro 45 giorni. Se falliscono vengono trasformati in un animale a loro scelta e liberati nei Boschi. Yorgos Lanthimos, regista greco qui al primo appuntamento con l’inglese (da qui forse un po’di timidezza agiografica) sceglie un cast di prima linea, e cerca di rendere tutti e tutto inedito. Ci riesce in gran parte, e raccoglie una favola sulla solitudine, il tempo, la società, il cambiamento e la trasformazione, facendo pensare a Kafka e a certe metamorfosi, con una tripartita unità di luogo e architetture minimali e una ritmica postmoderna che corre lenta e sorprende. E alla fine ci si rende conto di una cosa: non convenzionale piace.
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