Prologo. 1994. Tre ragazzini con le barbe disegnate discutono di Lady Oscar e Maria Antonietta, di quanto Cristina D’Avena sia diventata commerciale dopo Fivelandia 5 e del pupazzo Dodò dell’Albero azzurro che tragicamente pare non esista. Sono piccoli, ma avvertono già l’angoscia della pre-adolescenza. Arrivati ai fatidici 30 anni rollando cartine e versando ettolitri di caffé, sono ancora lì attorno a un tavolo incolore a sparare stronzate, aggrappati a quei sogni da non realizzare mai e afflitti dalle incertezze della post-adolescenza.
Quei tre “bamboccioni” sono i The Pills, tre talentuosi trentenni romani, Luca Vecchi, Matteo Corradini e Luigi Di Capua (geolocalizzati in zona Pigneto, Roma Sud), che nella vita vera si sono rifiutati di piegarsi al conformismo sociale, e di chiudersi in un ufficio otto ore al giorno per guadagnare una miseria, trasformando le loro vite e il loro “brainstorming” quotidiano in una web series da milioni di visualizzazioni, intercettata da quella vecchia volpe di Pietro Valsecchi (già mentore de I soliti idioti e Zalone) e traslati da YouTube, prima alla tv (col late night show su Italia 1 Non ce la faremo mai) e a breve al cinema con Sempre meglio che lavorare che sbarcherà nelle sale in 350 copie il 21 gennaio.
Ma torniamo alla storia. I tre amici sono attanagliati dall’ansia generazionale, strenuamente decisi a rimanere ancorati al loro immobilismo e a rifiutare qualsiasi responsabilità. Ma il malessere incalza: Luigi non riesce più a farsi la terza pippa del giorno e fa le piazzate ai ventenni che commettono l’errore di dargli del lei, Matteo è diventato intollerante alle canne e preoccupato per le nuove aspirazioni artistiche velleitarie del padre, mentre Luca – forse il più responsabile e attratto dal miraggio della maturità – si è innamorato di un’anima gemella fancazzista, che in un rigurgito di coscienza gli ha fatto scoprire l’ebbrezza del part-time e ha rafforzato l’aspirazione del barbuto ragazzo di aprire un “bangla”, un negozietto di alimentari a poco prezzo, da cui prenderà il via un viaggio dai toni “epici”, con tanto di corso alla Bruce Wayne come in Batman Begins – e Giancarlo Esposito di Breaking Bad a fare da guru – che potrebbe trasformare le vite dei nostri eroi per sempre…
Un po’ Apatow, un po’ Griffin e South Park, ma anche un po’ E alla fine arriva mamma e Friends , quello dei The Pills è un universo fumettoso (debitore di DC, Marvel e Zerocalcare), demenziale e delirante, che si esalta con il citazionismo compulsivo (ci si innamora anche citando: Twin Peaks, Un giorno in pretura, Lucarelli, La dolce vita…). E non potrebbe essere diversamente, perché il trio è emblema della generazione anni ’80/’90 figlia della televisione berlusconiana e adepta del cinema spielberghiano e tarantiniano di quegli anni, che ha aspirato tutto con la stessa energia di un Folletto Vorwerk: Pulp Fiction, Titanic, Fight Club, lo stallo alla messicana degli spaghetti western, John Woo, L’attimo fuggente…
Un immaginario effervescente asservito alla comicità demenziale e spesso surreale dei tre zozzoni, che non vuole scatenare chissà quali riflessioni esistenziali – anche se le suscita ugualmente, soprattutto per quel tono malinconico e nostalgico e quell’urgenza peterpanesca struggente che si respira (crescere fa male e “c’è il rischio di fallire“) – e che tocca tutti i temi più essenziali e cari ai nostri: l’amicizia, l’amore e il lavoro.
Si prende in giro tutto con cinismo e cattiveria: l’alto e il basso, il radical chic e il trash, Carmelo Bene e Muccino (quest’ultimo tirato in ballo apertamente, ricalcando Come te nessuno mai, con tanto di Vecchi che a un certo punto chiama Luigi “Silvio”, quando l’amico impazzisce e come Muccino Jr. in quel famoso film generazionale va ad okkupare il Liceo Mamiani, per sentirsi nuovamente giovane).
È un film diretto a un target molto preciso (20/40 anni), possibilmente già affezionato al trio e preferibilmente capitolino, considerata l’evidente romanità del progetto, nel linguaggio, nelle location e nel tipo di comicità. Va dato atto ai tre di essere riusciti a non snaturarsi nel passaggio dal piccolissimo al grande schermo, di essere rimasti fedeli allo spirito che anima la webseries che li ha portati al successo, ma che ovviamente sconterà il fio di rivolgersi a una nicchia molto specifica, nonostante l’indiscutibile universalità dei temi di fondo.
Si avverte tutto l’entusiasmo creativo dell’opera prima e una voglia di raccontarsi che galoppa a briglie sciolte, con il rischio connesso di ondeggiare tra il non prendersi mai sul serio e il prendersi troppo (sul serio). Un equilibrio instabile che oscilla come un pendolo per tutto il film, che soffre perlopiù della mancanza di una struttura narrativa organizzata e di un montaggio che renda le gag più compatte (ma qua diamo la colpa a Valsecchi che avrebbe dovuto irrigimentare meglio il gruppo). Il passaggio dal corto al lungometraggio, e dal Web al cinema, non è indolore e sconta i classici difetti da esordio, seppur a livello di regia offra non poche soluzioni inventive e una conoscenza del mezzo espressivo che sdogana il trio (in particolare il regista Vecchi) dalla dimensione di YouTuber.
Sempre meglio che lavorare è un romanzo di formazione circolare, dove il punto di partenza e il punto di approdo è sempre il medesimo, ma a fare la differenza è il viaggio che non trasforma i protagonisti, ma radica in loro la consapevolezza di non volersi immergere nel mondo che i “grandi” hanno costruito e lasciato in eredità, preferendo la dimensione del bianco e nero (il cui andare e venire viene sempre usato con un significato preciso) che caratterizza quel loro regno personalissimo fatto di fantasia, chiacchiere inutili e fancazzismo rivendicato. Nessuna redenzione attende i nostri nel finale, come esigerebbe un qualsivoglia “coming-of-age”, ma un puro e semplice cambio di prospettiva, esemplificato magnificamente dalla “metafora della cicorietta”, che da bambino ti faceva schifo e da vecchio, invece, ti piace un sacco.
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Mi piace: la bravura nel far respirare il malessere generazionale dei trentenni precari; il citazionismo colto e divertito; la simpatia del trio romano.
Non mi piace: il film sconta il passaggio non troppo meditato del passaggio dal corto web al lungo cinematografico.
Consigliato a chi: ai fan dei The Pills e ai trentenni E DINTORNI che sono in cerca di fotografie autentiche della loro generazione.
VOTO: 3/5
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