Un’Odissea dello spirito, senza viaggi, senza mostri, senza dei. Solo un uomo sfinito che torna a casa dopo anni di lontananza, una moglie tenace che lotta per mantenere la fede in un suo inatteso ritorno e il viaggio di un figlio verso l’età adulta, diviso tra l’amore per sua madre e il peso del mito di suo padre. Una famiglia separata dal tempo e dalla guerra, riunita dall’amore, dal senso di colpa e dalla violenza.
Con The Return, in anteprima nella sezione Grand Public della Festa del Cinema di Roma, il regista Uberto Pasolini, autore di film minimali e profondissimi come Still Life e il più recente Nowhere Special, nonché produttore del cult Full Monty, si è cimentato col mito omerico da pari a pari, fornendone la propria personale versione, e tornando ad aggiornare una delle storie più celebri della letteratura mondiale. Un’opera eccentrica all’interno della sua filmografia, che Pasolini ha affrontato ponendo l’accento sui temi cardine dell’Odissea ma rivisitandoli anche sul piano strettamente cinematografico.
The Return è un film scarno e rigoroso, che punta molto sulla fisicità e sul patimento fisico di Ulisse, nome con il quale il personaggio è più noto (specie per chi non ha frequentato il Liceo Classico) nella sua denominazione latina. Un maciullato e muscoloso Ralph Fiennes lo interpreta con generosità e abnegazione, sporcandosi ben volentieri nel fango e nella lordura, aderendo al personaggio con barbone da eremita, occhi lucidi e sofferenti, ferite e cicatrici: tutti elementi che da soli bastano a restituire il patimento estremo di un uomo che affrontò mille peripezie prima di tornare a baciare le sponde della sua “petrosa” Itaca, parafrasando Foscolo.
Accanto a lui, nei panni dei personaggi principali ci sono Charlie Plummer nel ruolo di Telemaco, del quale il film amplifica il “complesso” in chiave quasi psicanalitica, e Juliette Binoche in quello di Penelope: se il primo appare una scelta assolutamente azzeccata per l’iconografia del personaggio, l’attrice francese, che con Fiennes riforma la coppia de Il paziente inglese, veste invece i panni della consorte del re esule, impegnata a tessere e disfare la sua proverbiale tela, con l’interpretazione più levigata e in sottrazione di tutto il cast (nel quale c’è da segnalare anche il “nostro” Claudio Santamaria nei panni del porcaro Eumeo, alle prese con una prova in lingua inglese accanto a un cast internazionale di pregio).
L’adattamento di Pasolini, che purtroppo non riesce a farci credere adeguatamente al fatto che Ulisse possa non essere riconosciuto dai suoi cari, nonostante tutto il tempo che è passato, rischia a tratti di risultare anodino e di perdersi un po’ nelle maglie della co-produzione internazionale rigida e di maniera. Un rischio calcolabile e da mettere in preventivo, dato che si trattava di mettere mano a un materiale vecchio tanto quanto la storia dell’uomo, archetipico non solo sul piano letterario ma anche in termini di inconscio collettivo. Senza contare, poi, che dell’Ulisse “dal multiforme ingegno” qui non c’è praticamente traccia, visto che lo troviamo in estreme condizioni di sofferenza e disarmo e ci viene mostrato a partire dal suo naufragio.
L’operazione di The Return, già azzardata nell’elegante e austero (nonché indubbiamente molto superiore) Nostos di Franco Piavoli, del 1989, è stata però condotta in porto in maniera diligente e con mano salda, puntando soprattutto sulla dimensione ancestrale e corporea, sulla brutalità della natura selvaggia (con anche qualche forzatura non filologica). Con in più un’idea di azione in cui la viscosità dei legami di sangue e dei vincoli familiari che tengono aggrappati alla nostalgia e al passato contano tanto quanto il furore di una guerra – quella di Troia – che nessun ritorno a casa potrà mai cancellare dal cuore e dalla mente di coloro che l’hanno combattuta.
Foto: Maila-Iacovelli-Fabio-Zayed
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