Dopo il successo di The Artist, che gli è valso un Oscar, Michel Hazanavicius poteva intraprendere qualsiasi percorso. Battere la Walk of Fame di Hollywood, proseguire nella commedia, sperimentare cimentandosi in nuovi generi. Tra queste strade, il regista ha scelto di rispondere a un bisogno rimasto inespresso per molto tempo e forse impossibile da mettere in atto senza il trampolino del successo internazionale.
Da questa esigenza prende forma The Search, progetto sulla seconda guerra in Cecenia maturato a lungo, ma dall’improbabile realizzazione in un contesto concorrenziale e di mercato come è, in fondo, il settore cinematografico. Presentato alla scorsa edizione del Festival di Cannes, The Search racconta le storie di quattro personaggi che si incrociano sullo sfondo del conflitto. A eccezione di Bérénice Bejo, moglie del regista, e di Annette Bening, gli attori non sono professionisti, elemento che inscrive il film, almeno nelle intenzioni, all’interno di una cornice neorealista.
La volontà di portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale una vicenda che la Storia e i media hanno spesso rubricato sotto l’etichetta dell’operazione antiterroristica (quella che prima Eltsin e poi Putin hanno condotto con un conflitto armato che ha il volto di un genocidio), viene declinata attraverso un racconto di finzione che si ispira all’omonimo film del 1948 di Zinnemann, e non, come ci si potrebbe aspettare, sotto forma di documentario, perchè, secondo il regista, più forte e più commovente.
Questa premessa è necessaria per leggere The Search, per apprezzarne la complessità e la buona fede, ma anche per rilevarne i limiti. Una narrazione articolata, che appunto si sviluppa sui binari di vicende parallele. Quella del piccolo Hadji che, avendo assistito, non visto, all’omicidio dei genitori, si mette in fuga con il fratellino neonato fino a incontrare, per caso, Carole, rappresentante per i diritti umani dell’Unione Europea (Bérénice Bejo) giunta in Cecenia per stilare un rapporto sulla condizione della popolazione. Quella di Raissa, sorella di Hadji, che si mette sulle tracce dei superstiti della sua famiglia. Quella, infine, di Kolia, giovane che subisce un processo di formazione al negativo verso il punto più basso del baratro morale in cui agisce l’esercito russo.
Sullo sfondo della vicenda umana, in particolare quella di Carole e Hadji, protagonisti della storia con cui è più facile provare una sincera empatia, Hazanavicius si fa osservatore del conflitto con uno stile minimale che punta tanto alla semplificazione del linguaggio, con movimenti di macchina parsimoniosi e accorti, tanto alla spoliazione dell’immagine da ogni apparato scenico (che pure risulta un’operazione percettibilmente costruita): set desolati, luci grigiastre, che proiettano un’ombra di vuoto sul paesaggio rurale e sulle macerie, interni scarni, privati di arredamenti eccedenti, volti rigati dalla tragedia del conflitto.
Se questa scelta si rivela pertinente nella dichiarazione di intenti, non risulta altrettanto valida nei risultati: il film, che vuole fuggire da ogni tentativo di commiserazione e di pietismo, risulta a tratti freddo e anempatico, distante e privo di coinvolgimento nella sua calcolata ricerca di una misura. Di contro, è evidente che alla sottrazione dello spazio corrisponde un caricamento sentimentale delle storie. Il tratto più emozionale viene interamente affidato alle vicende personali dei protagonisti: da una parte dalla coppia Carole-Hadji, in cui la storia di Raissa funge da camera di decompressione, dall’altra quella di Kolia. Un compito non semplice e a tratti in contraddizione con se stesso, per un film che si sforza di non esprimere un giudizio morale sui fatti storici, presentando anche all’interno dell’esercito russo, con le sue dinamiche assassine e disumane, un cono di velata speranza.
Nonostante la volontà di rimanere neutrale, trapela inoltre nel film un giudizio di fondo, uno sguardo culturale che allontana la pellicola dal tracciato (neo)realista e che ancora di più sottolinea gli aspetti fictional dell’operazione. Là dove il personaggio di Carole dovrebbe farsi alter ego del regista e dello spettatore, limitandosi a registrare gli avvenimenti, emerge, a tratti, una centralità occidentale del punto di vista: quello che erge la protagonista a eroina della vicenda e, nel finale, quasi ad artefice della felicità degli altri. Tuttavia, nonostante la sceneggiatura calchi a volte la mano su cliché piuttosto prevedibili e su una quadratura del cerchio un po’ macchinosa, non si può negare a The Search il merito di rimanere, nella sua complessità, uno sforzo ammirevole, soprattutto in virtù della sua unicità rispetto alla contingenza storica narrata. Le due ore e mezzo della sua durata non pesano, tutto sommato, sulla percezione complessiva del film e il racconto riesce a emozionare, anche a fronte di alcuni momenti di cedimento sentimentale. Una pellicola che riuscirà sicuramente nell’intento di sensibilizzare il pubblico, o, quanto meno, di esprimere un punto di vista divergente su una vicenda fino a ora raccontata con gli strumenti dell’ideologia.
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Mi piace: lo sforzo di osservare la Storia con sguardo testimoniale e senza compiacimento. La capacità di cogliere attraverso un racconto di finzione il dolore di un popolo.
Non mi piace: la forzatura a tratti macchinosa della sceneggiatura. La ricerca del distacco emotivo che, in alcuni momenti, rivela al contrario un giudizio di fondo.
Consigliato a: chi vuole vedere un film storico con un accento drammatico e sentimentale.
Voto: 3/5
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