Vi posto la recensione scritta sul mio blog come commento dopo aver visto questo bellissimo film.
Chi scrive un romanzo ha come scopo quello di raccontare una storia.
Chi scrive una poesia ha invece l’intento di fissare su carta un sentimento, un’ emozione.
Questa ipotesi che funge da premessa a questa recensione non è valida solo per il mondo della letteratura, ma anche per quello del cinema.
Terrence Malick è infatti un regista e il suo Tree of Life è una poesia: al posto di quartine ed endecasillabi vi sono immagini che si muovono al ritmo di una musica immortale che scandisce i giorni e le ere.
Se fosse considerato un dramma, il film del regista americano violerebbe il principio di unità di tempo, ma in realtà non lo viola affatto poiché non racconta una storia, ma “la Storia”: quella della nascita del nostro pianeta. Lo fa per immagini, reali e digitali, per circa 15 minuti iniziali, subito dopo aver presentato la famiglia protagonista del film e il dolore improvviso per la morte di un figlio che fa scattare la domanda esistenziale: perché?
Quando il racconto della genesi della Terra termina (il che coincide con la caduta di un meteorite nell’oceano) inizia il racconto della nascita della famiglia O’Brien. Un racconto che procede per immagini accompagnate dalla presenza del Voice Over che non ha la pretesa di spiegare avvenimenti ordinari nella vita di ogni famiglia, ma quello di darvi senso e porre interrogativi.
E’ certamente la parte più bella del film (insieme ai primi minuti) curata in ogni singolo movimento di macchina, in ogni singolo dettaglio messo a fuoco o lasciato in secondo piano.
Poi il V.O. diventa meno invadente e lascia spazio al recitato e a dei personaggi forse stereotipati, ma ben interpretati da Jessica Chastain e Brad Pitt.
Ma più che nelle parole e nella trama, il vero focus di questo film risiede nel linguaggio del corpo attraverso cui Malick trasmette la tenerezza della madre opposta alla rigidità autoimpostasi dal padre, l’amore-odio del primogenito verso il padre al quale ora sembra ispirarsi, ora vuole discostarsi il più possibile nel rapporto conflittuale con se stesso e con gli altri, in particolare con quel fratello che invidia, ma a cui è fortemente legato e che perderà tragicamente. E qui entra forte il tema del dolore, della sofferenza e della morte, che non sono punizioni divine, ma che visitano tanto i buoni quanto i cattivi (con riferimento esplicitato più volte al libro di Giobbe). E il difficile rapporto di Jack (interpretato dal giovane Hunter McCracken e da Sean Penn) con il padre si riflette nella sua personale ricerca di Dio e di una pace interiore che, diventato adulto e non più immerso in un mondo naturale, ma in quello artificiale fatto di grattacieli creati dall’uomo, sembra raggiungere nel finale quando “scende” allontanandosi dal “non luogo” in cui lavora per raggiungere un luogo deserto dove avverrà un “passaggio” che lo porterà verso la riconciliazione.
Impossibile riassumere in breve un film che a molti piacerà, ma che annoierebbe la maggior parte dell’umanità, il cui mistero è proprio il motore che muove il lavoro di Malick.
Un film altamente simbolico che non si può avere la presunzione di capire fino in fondo, ma davanti al quale bisognerebbe solamente rimanere affascinati, così come quando si legge una poesia che ci fa vibrare l’anima.