Ormai abituati ad attendere ogni suo film con una certa curiosità, Terrence Malick torna con una nuova e ambiziosa opera, che riflette sulle origini e sul senso della vita e sull’importanza del ricordo. Con immagini splendide e pochissimi dialoghi, il registra stende il suo sguardo all’origine dell’universo, alle prime tracce di vita sulla terra e all’armonia cosmica, dove non c’è l’ombra dell’ingiustizia e della violenza umana, e approda ai giorni nostri. Una città moderna di grattacieli, di architetture dalle linee nette e purissime che vanno come a ritagliare il cielo e che entrano in contatto con quella natura semplice e buona delle origini, dove c’è ancora spazio per il volo di un gabbiano, ma pochissimo per i rapporti umani. In mezzo a questi due estremi c’è la vita dell’uomo, esemplificata da una famiglia americana degli anni ’50 in cui crescono Jack e i suoi due fratelli, amati in modo diverso da una madre dolce e protettiva ed un padre ruvido e autoritario. E’ sulle cose del mondo che si posa lo sguardo del piccolo Jack e nascono le domande: perchè esiste il male, perchè la violenza, perchè si provano sentimenti contrastanti, perchè la morte? Perchè se tutto è buono in origine, poi si tende al male? Sorretto da una forte tensione religiosa, il film non dà risposte, ma ci consegna momenti di pura poesia, come le cose più vere ed essenziali della vita, le più semplici: una corsa in mezzo al prato, il sorriso di una mamma, il cielo azzurro. Con rimandi a “2001: odissea nello spazio” ed echi della “Valle dell’Eden”, Malick si fa perdonare qualche scivolata, come la documentaristica origine del cosmo, il finale in un onirico aldilà e, di sicuro, qualche minuto di troppo. Nulla che il regista non ci abbia già raccontato nei suoi precedenti film o che già non si sapesse, ma fa piacere ritrovare un cinema non omologato e dal linguaggio personalissimo che incanta lo sguardo e fa uscire dalla sala in silenzio e un po’ straniti.
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