“The war. Il pianeta delle scimmie” (War for the Planet of the Apes, 2017) è il quinto lungometraggio del regista-sceneggiatore statunitense Matt Reeves.
Al nono film della serie (inizio nel 1968 con il primo ‘Il pianeta delle scimmie’ di Franklin Schaffner e l’immagine icona di Charlton Heston) e al terzo reboot dopo quello del 2011. Film continuazione del precedente ‘Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie’ uscito tre anni fa firmato dallo stesso regista.
Pellicola di epigoni, roboante, intima, sociale, politica e mistica ma, anche, ammiccante, ridondante, pastosa e, allegramente, piena di riferimenti altrui. Ambivalente e ambi-qualitativo:
Diviso in tre parti essenziali:
a) Preludio e antefatti alla partenza; paesaggi ben ricostruiti, luoghi accattivanti, pomposità ben orchestrate, panorami e profondità di livello, scontri e cambi di tono mai banali e di buona fattura;
b) Arrivo campo e regole dello stesso: un certo meccanicismo, una mistura di lunghi discorsi e riferimenti ad altro; religiosità, antropologia, socialità, minoranze e legalità si mescolano e si alternano scambiandosi importanza, dissonanze e luoghi simbolo in riferimento a rastrellamenti, ebraismo, soluzione finale e lavori forzati.
c) Finale con guerra epilogo e morale vincente di uomini che non sanno più parlare e interagire collettivamente mentre le scimmie e tutto quello attorno ragionano e sapientemente si organizzano con la natura dalla loro parte. Ecco ciò che si allontana per qualcuno si avvicina per qualche altro.
La pellicola risulta certamente godibile e di presa ma rimane troppo ‘filosofica’ e con sguardi ferrei e tenebrosi tra i ‘capi’ (Cesare per le scimmie e il Colonnello McCullough per gli umani) che all’ennesimo sa di ripetuto e di stanchezza visiva. Il canto del cigno avviene più volte per catturare lo spettatore in un crescendo vero e di grande voracità fisica, cruenta e verrebbe da dire disumana.
Un film che non riesce a piacere appieno dove a una forma spettacolare (per certi versi trattenuta in alcuni frangenti) e altisonante (già predisposta è orientata) si contraddistingue una ricerca dell’altro in scambi (argomentati e poco innovativi) e dialoghi (tendente al mistico e all’ossequioso socializzante) che pare un aggiustamento per appaiare il film da blockbuster raffinato a seriosità ingigantita da musiche ad hoc, ambienti ridenti e, soprattutto, a digitalizzazione esagerate (forse sarebbe stato il caso di realizzare un’opera intima con puro realismo togliendo tutto il superfluo per puro piacimento o altrimenti andare completamente dall’altra parte: tutto appare una piccola furbata di immettere tutto e di tutto).
Nella prima mezz’ora si contano una decina o forse più di riferimenti ad altre pellicole e la sensazione (per chi conosce un po’ di cinema anche recente) è di piccolo cabotaggio e, allergia intelligente, all’assuefazione di un immaginario oramai al limite di un fondo senza un qualcosa, non quantomeno di originale, ma almeno di scarto minore e di inquadrature anti-spot per non dire irrise al deja-vu.
Buone le intenzioni e i rimandi ma alla fine la pellicola risulta alquanto pomposa e tirata per le lunghe con un certo gusto di auto-referenzialità: certo le immagini hanno il loro gusto e le sonorità intrattengono al meglio nel cambio di passo tra un dialogo e un movimento, una battuta e uno scontro. Tutto ciò in un troppo di riferimenti (che non sono solo nel preliminare iniziale) che diventano dopo un aggiungere e mai un togliere, un soverchiante uso di eccessi e simboli, un drone continuo che ‘misura’ e ‘schizza’ lasciti passati, personaggi a ritroso, sguardi inviperiti e moniti già visti con uno schema iperbolico dirompente e pesante, posticcio e ferreo seguendo abitudini di autori senza un qualcosa di nuovo con un groviglio e accumulo accademicamente vuoto. E’ il nulla ‘pensiero’ come il tanto ‘ingrediente’ si ammassano (insieme) al debordare della camera in movimento o bloccata tra rigurgiti di pellicole poste e riposte una sopra l’altra. Troppo da dare e troppo da dire e il film diventa un ‘intrattenimento’ anche intelligente e una ‘presunta’ autorialità da film classico e non certo ‘post-modernizzato’.
E il colpo in canna sappiamo già a chi viene rivolto: lo guardo truce di Cesare (Andy Serkis) e il ghigno monocorde del Colonnello (Woody Harrelson) si incontrano spesso e lungamente fino al ‘duello’ vendetta al buio quando la ‘Apocalypse’ (riferimento esplicito e fin troppo con effetti contrari) arriva sotto e sopra le teste degli scudieri ligi e osservanti al condottiero ‘testa rasata’. E il titolo, d’altronde, dice dove si arriva e qual è il finale.
Regia di Matt Reeves che arruola il cinema di ieri per modellarlo a quello di oggi; la colonna sonora di Michael Giacchino sovrasta e addensa l’immaginario (compiaciuto).
Voto: 6/10.