“This Must Be The Place” (id., 2011) è un film di Paolo Sorrentino che tenta la carta della produzione internazionale (Italia, Irlanda e Francia) con un budget importante (si parla di 28 milioni di dollari) e in lingua inglese. Il nome di Andrea Occhipinti e della Lucky Red nella produzione sono un buon viatico per una pellicola di cosiddetto prestigio (il film è stato presentato al Festival di Cannes).
Premesso ciò, si deve dire che il film del regista napoletano non raggiunge le premesse sperate e si scompone in ritagli immaginari ora convincenti ma, per certi altri, poco redditizi all’uopo e convenevoli situazioni che lasciano lì l’idea senza esplorala fino in fondo. Un sentito itinerario che si contorce di idee visive poco corrisposte dalla storia raccontata. Un teatro del giro mentale che s’insabbia sul più bello e dove risaputi modi fanno da collante ad eleganti intermezzi visivi (ora kitsch, ora azzurrati e ora in orizzonte) che allargano la pellicola in veloci cartoline stanche che si sfogliano per beltà e per sicurezza.
Ma si deve anche dire che il film stempera il futile mondo attorno e arricchisce l’animo di chi guarda in un recitare arso e invischiato di grezza malinconia con un andamento flemmatico nei modi e realmente corrosivo. Il vivacchiare di una ex rock star fuori da tutto e in isolamento (quasi) perenne dà la netta sensazione di un retrogusto del ridicolo di quello che era e di quello che siamo. Un ridicolo visivo pieno (il trucco e i capelli cotonati di Cheyenne) che spreca e inghiottisce un’America sfatta e dimessa. Il cercare il nazista nel nuovo mondo è solo stantio modo e voglia di ristudiare la storia e mescolarla all’oggi (l’impossibile odierno). Così che che il prefinale si schianta a noi con emozione silente e sguardo laconico; il girar nudo sulla neve per ricordare e trapassare la tragedia (del padre di Cheyenne) rimarcano nell’uomo tedesco (colpevole sempre) una dimora lugubre e un vivere imbiancato funereo (quando già di neve ad Auschwitz ne cadde molta per i molti già morti). Un gesto (non estremo) di spasmo moderno dove la storia dell’uomo ripie(a)ga senza remora alcuna. Un ciondolare di pensieri e di ricordi a fatica (forse dimenticati) detti.
L’unica cosa brutta del ‘morire’ è quella di essere ancora ‘vivi’: tutto s’annulla nel mentore di una spesa già fatta e di un destino ancora non meritato.
Sean Penn (Cheyenne) dimostra con questa pellicola che il rischio artistico si può fare: ma ad essere veramente bravi e supportare una pellicola da solo (anche con stanche narrative) non è affatto semplice e l’attore statunitense ci riesce benissimo interpretando un personaggio sopra le righe (certamente) ma che denota un basso profilo e un adeguato substrato (del suo passato e di altri).
La sua vita, caduto nell’oblio, si rivela una routine estenuante e uno sberleffo a ciò che il suo lavoro gli ha dato (ma si dice in fondo ‘nessuna lavora’ e tutti ‘si adoperano come artisti’) fino a quando il ritorno a New York (da Dublino) dove suo padre sta morendo (di ‘vecchiaia’…cosa insopportabile) non gli dà la ‘voglia’ di una ricerca affannosa e impossibile (l’ufficiale nazista Aloise Lange che ‘distrusse’ la vita di suo padre durante la vita infernale del campo di Auschwitz). Trova un aiuto in un vecchio cercatore di criminali nazisti, Levy (un bravissimo Judd Hirsch).
Paolo Sorrentino si adopera nel soggetto e nella sceneggiatura (con la collaborazione di Umberto Contarello) e si avvale della musica (anni ottanta) dei Talking Heads e di David Byrne (il titolo è un omaggio diretto a una loro canzone di quasi trent’anni or sono). Un diretto ringraziamento che viene evocato in un tributo e mini concerto all’interno del film. L’incontro casuale e post-datato di Cheyenne con David Byrne illumina il ricordo e annichilisce ogni verso canoro futile (di ‘merda’ per chi offre ciò che non serve come il nome del gruppo che lo stesso Cheyenne vorrebbe produrre). Uno sporadico vivo momento di nulla al resto che rimane di un’epoca glaumorizzata e spenta (del tutto). Tutto come il sogno americano (mai ritrovato) e la mente di un ex che va in cerca della Storia di un Ex ormai spento tra le nevi (spalmate di ceneri).
Un film disuguale che riunisce buone (e intelligenti) intuizioni e disadorne armonie rituali. Il vezzo di andare oltre il confine si ferma (e inciampa) in chiari (di luna) visivi troppo sempli(fi)c(at)i e alquanto comuni. L’anticonvenzionale si ferma ad un semaforo verde mai cercato.
Il finalino dall’alto (con il viso struccato…da fuori set) di Cheyenne ricuce un mondo che sbiadito non era.
Sean Penn bravo e convincente.
Regia a fasi alterne (con momenti intensi e sentiti).
Voto: 6+.