This Must Be The Place: la recensione di Luca Ferrari
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This Must Be The Place: la recensione di Luca Ferrari

This Must Be The Place: la recensione di Luca Ferrari

This must be the place (2011)– consolazioni, fragilità e riscossa

Redenzione cercasi. Nella lunga attesa, spazio a trascurati soliloqui interiori. Inferni in madreperla. Indicazioni con zero richieste, contese nella monotonia di una ragnatela senza prede né predatori. Solo qualche smunta e svagata espressione. Cheyenne (Sean Penn), rockstar in auto-esilio da palchi e studi di registrazione, trascorre una vita statica a Dublino. Nei suoi pensieri ci sono ancora due ragazzi rimasti “schiacciati” dalle sue canzoni. Cheyenne, un po’ Michael Jackson. Un po’ Ozzy Osbourne. Innocente e sofferente come un bambino. Lento nell’andatura. Indolente e alterato nel parlare. La folta chioma alla Robert Smith (The Cure) ricalca il peso di ciò che si porta sempre appresso. Il look pesante e bardato di nero, con rossetto sulle labbra e unghie colorate sono le sbarre di una cella aperta e senza serratura, da cui non vuole uscire. Cheyenne ha pochi contatti con l’esterno, a eccezione della giovane dark Mary (l’irlandese Eve Hewson), con cui va spesso a portare i fiori sulla tomba del fratello di lei. Avvolto nella calda coperta di una pseudo-depressione che lo lascia nel limbo di chi ha poco da chiedere. E le lacrime versate sono un alibi per non affrontare un’esistenza che dovrà un giorno mutare. A differenza del collega David Byrne nella parte di se stesso, l’ex-leader dei Talking Heads (la cui canzone “This must be the place” dà il titolo alla pellicola), che continua a produrre arte, lui si tiene una piscina vuota per giocare alla pelota con la moglie Jane (Frances McDormand), pompiere. Affettuosa, positiva e dal carattere forte. Tutto sembra andare avanti senza cambiamenti fino alla notizia della morte per vecchiaia dell’anziano padre con cui non si vedeva nè sentiva da trent’anni, e che condurrà lo stralunato musicista da Dublino a New York, via nave, per poi prendere la strada fino al New Mexico, alla ricerca di Aloise Lange (Heinz Lieven), un ufficiale nazista di cui il genitore avrebbe voluto vendicarsi dopo averlo “incontrato” nel campo di concentramento di Aushwitz. A fianco di Cheyenne, all’inizio e alla fine del viaggio in terra nordamericana, c’è Mordecai Levy (Judd Hirsch), cacciatore di nazisti che lo aiuterà nella suo insolito bagaglio ereditario. La rockstar passa da un motel all’altro. Nei televisori alle volte si sentono le parole Barack Obama, alle volte si vede Sarah Palin. Negli occhioni pieni di mascara di Cheyenne c’è un mondo ancora troppo grande da contenere. Incapace di gestire le proprie perdite mentali. Incapace di cambiare opinione come un adolescente arrabbiato. Sean Penn è magistrale nei ruoli drammatici (Mi chiamo Sam, Dead man walking, Mystic river, Milk). Apice e limite per l’attore californiano due volte premio Oscar, troppo legato a personaggi da ferite profonde, e mai in grado di strappare un sorriso che non sia innaffiato da tormenti. Il regista Paolo Sorrentino lascia scorrere la macchina da presa. Senza imprimere eccessiva potenza. Lasciando che la poesia dell’essere umano non sovrasti mai lo sconfinato paesaggio. Come se avesse coscienza della creatura delicata che ha fra le mani. Orma dopo orma. Pompa di benzina dopo Pompa di benzina. Primo piano (costante) dopo primo piano. Aprendo le porte del suo viaggio alla gioia di una giovane vedova che abbraccia il figlio grassottello per aver imparato a nuotare. Nella narrazione visiva, alle volte tornano in mente piccole sfumature che caricano il vissuto. Alle volte basterebbe spogliarsi volutamente e camminare per qualche minuto senza abiti in mezzo alla neve per sentirsi capaci di andare avanti. Per la maggior parte del proprio tempo invece, le persone non si guardano indietro e accettano ogni piaga senza reagire. E anche se tutti sanno che ci sarà sempre di peggio del proprio vissuto, non fa differenza. Vivere morendo è una caratteristica che accomuna ancora molta gente. Vale la stesso per tutte quelle guerre che non finiscono mai. La consolazione di un’intera vita dedicata a un’ideale non rientra nella traversata delle scoperte personali, nemmeno se trattasi della più poetica delle vendette circolari: attuata per mettere pace tra noi, la spensieratezza di un inferno e l’estinto legame ritrovato. Facciamo un patto. Un giorno farò in questo modo: prenderò una decisione, e mi presenterò alla porta di chiunque non abbia ricordato ciò che è accaduto. Dopodiché me ne andrò evoluto e felice, calpestando i mozziconi di ogni paura venuta al mondo come un’amena e passeggera salvezza. È bello essersi appena caricati di un simile vissuto.

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